Provocare, anche in un tempo breve e in uno spazio limitato, uno scambio di ruoli e una dichiarata “confusione di linguaggi”, interrogare chi fa il teatro e chi lo frequenta sulle sorti del nostro lavoro, mi sembrava urgente e forse necessario. Il Carnevale del Teatro è nato così. Il pubblico, gli attori, e perché no, il caso hanno fatto il resto.
In fondo abbiamo unito tre parole usate, e usate al limite del luogo comune, come carnevale, teatro, Venezia perché, collegate assieme, potessero assumere un valore originale, un senso e un significato diversi, indicazione di una esperienza irripetibile altrove, ma anche a Venezia legata a tempi precisi di ricerca e di studio paralleli alla festa, ma certamente da essa distaccati e autonomi. Del resto, non era tempo di festa nel febbraio scorso, e non è tempo di festa oggi, se il teatro è o vuol tornare ad essere specchio dei tempi, anche il terremoto, anche i guasti morali, non possono passare invano sulla nostra pelle.
Ma è pur vero che è tempo, e tempo indilazionabile di affermare in questo periodo le funzioni civili e umane del teatro. Anche da questa consapevolezza nasce il tema che La Biennale si è data quest’anno, che è l’analisi del linguaggio teatrale nel ’700, l’attenzione cioè agli accadimenti teatrali noti e meno noti sorti nel secolo dell’Illuminismo.
Tema denso di implicazioni con il carnevale, per i rapporti e gli incontri fra il regime della maschera e il regime della ragione, fra il “fare politica” e il “fare utopia”; tema che si riallaccia anche alle tradizioni carnevalesche del ‘700 veneziano; tema infine e soprattutto che consente di ricordare e riaffermare l’importanza della conoscenza e della ragione per il futuro dell’uomo, e quindi di una delle arti più umane quale è il teatro.
Maurizio Scaparro