fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 4
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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 4

Cosa si nasconde sotto la superficie del teatro? Cos’è che ci spinge a tornare a questo tipo di esperienza artistica, culturale, sociale dal vivo antica quanto l’umanità? È in questo tipo d’interrogativi che si addentrano gli articoli di oggi, stimolati dagli spettacoli di OHT e di Agrupación Señor Serrano – ma anche dalla lezione di una maestra dello spettacolo quale Raffaella Carrà, appena scomparsa. Naturalmente non ne usciamo con delle risposte certe, ma con nuove, spiazzanti domande, che attraverso il pop, la post-verità, l’iper-contemporaneo, tornano ad attingere da punti di vista diversi al mistero che da 2000 anni e passa avvolge l’arte performativa, e il suo posto possibile all’interno di una società.

Se ne è andata Raffaella. Non serve nemmeno scrivere il cognome: la conoscevano tutti. È, era, un’amica, una presenza familiare oltre al suo essere ‘icona’. E la sua scomparsa va onorata anche alla Biennale Teatro.
Potrebbe sembrare un ossimoro, un sacrilegio, accostare l’ombelico nazionale a, che so, le intemperanze di Carmelo Bene o alle ascetiche derive grotowskiane all’isola di San Giacomo in Paludo; mettere a confronto il tuca tuca con la lotta di classe portata in scena da Ostermeier e Édouard Louis. Suona paradossale o dissacrante? I puristi dell’ortodossia postdrammatica si scandalizzano? Non so, forse fanno bene.
Ma se c’è una cosa che abbiamo imparato, e che forse l’estremo saluto a Raffaella può farci apprezzare, è che esiste la parola ‘spettacolo’ e che forse non è poi così tanto da stigmatizzare. Lo ha affermato, tempo fa, anche Romeo Castellucci, che a detto più o meno (cito a memoria): non ne dobbiamo aver paura. Non disdegnare lo spettacolo, né – addirittura – l’intrattenimento.
Lo spettacolo è il precipitato concreto della creazione teatrale, è l’incontro con il pubblico, è la gratificazione dell’applauso. L’intrattenimento diventa il tempo sospeso della festa: cosa è il teatro se non festa collettiva di tutti con tutti? Intrattenimento da non confondere con il “tempo libero”, con l’entertainment spiccio da club vacanze, ma come tempo dedicato al rito. Dunque, festa e gioco, rito e divertimento. Peraltro anche Brecht rivendicava il diritto al godimento in teatro.
Allora, mi piace tornare alla lezione di un maestro della regia teatrale italiana, Leo de Berardinis, quando diceva che si poteva mescolare, bene, Totò con Amleto, lo sberleffo sacrilego della ‘macchietta’ con la pensosa aurea del mattatore, mettere insieme Joyce e Scarpetta. Leo – forte della sua esperienza del “teatro dell’ignoranza”, combattuta nella periferica realtà di Marigliano assieme a Perla Peragallo – era approdato, al culmine del suo percorso artistico, alla sapiente consapevolezza di un’arte scenica che tutto abbraccia: spettacolo e ricerca, jazz e dodecafonia, poesia e sceneggiata. Ed è bello, infine, ripensare al percorso teatrale dei direttori della Biennale, quei “ricci/forte” nelle cui creazioni si può certo ritrovare una simile tensione, una apertura sistematica grazie alla quale non hanno esitato a coniugare, per dirla grossolanamente, il gelato Macadamia con Pasolini, Pinter e Barbie, l’Orestea e i fumetti, la musica pop e Verdi.
Nei tanti ricordi e nei necrologi per la Raffaella nazionale (o meglio: internazionale) in molti evocano la sua “professionalità”, quasi stupiti del fatto che per fare spettacolo servano sì passione e talento, ma anche dedizione, lavoro, preparazione, studio. In ogni campo, in ogni settore: nel balletto classico come nella performance, nell’opera come nella prosa, serve studiare. Qui alla Biennale Teatro i tanti workshop in atto, con straordinari protagonisti della scena, artisti di altissima caratura, frequentati da giovani estremamente determinati, stanno, semmai ce ne fosse bisogno, a confermarlo ulteriormente. E chissà come sarebbe stato un laboratorio con Raffaella Carrà! I maestri, si sa, bisogna cercarli. E i bravi maestri, anche questo è noto, a un certo punto devono sparire, farsi da parte, eclissarsi per lasciare spazio e vita agli allievi. Raffaella ci ha salutato, resta la sua lezione, da prendere molto sul serio.  

Un suono comincia a diffondersi, la sensazione che suscita è simile a quella di un’orchestra che si accorda, l’illuminazione si abbassa. Le vibrazioni dissonanti dei vari strumenti pian piano si uniscono in una melodia continua mentre la sala tarda a rabbuiarsi. Quando anche le ultime luci si sono spente e il volume aumenta considerevolmente, un occhio di bue punta il centro del sipario ancora chiuso. Non esce nessuno. La stoffa verde si dischiude timida, lasciando scorrere il bagliore che attraversa il palco a metà fino a illuminare un’asta con microfono; non ci sono attori, performer o cantanti. 
I primi esseri umani a fare il proprio ingresso in scena nell’ultimo lavoro di OHT [Office for a Human Theatre], presentato in première alla Biennale Teatro 2021, che lo ha co-prodotto, sono i tecnici. Il motore in carne e ossa, gli operai del teatro attraversano lo spazio scenico con indifferenza, quasi non ci fosse pubblico. Prendono l’ascensore e salgono fino al ballatoio di manovra per uscire subito di scena. Con loro ai propri posti, tutto può iniziare. 
Difficile inquadrare la creazione di Filippo Andreatta, Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro: uno spettacolo, un’installazione, teatro d’immagine, forse un viaggio. I colori luminosi di Andrea Sanson e la partitura sonora di Davide Tomat generano un’atmosfera che si moltiplica creando spazi ultraterreni, ma che dal teatro partono e ritornano. Gli spettatori diventano astronauti di quel luogo nominato quattro volte nel titolo fino a perdere di significato per manifestarsi in tutta la sua materialità: luci, fondali che si moltiplicano e fanno su e giù insieme alle americane. Sono loro i (s)oggetti della creazione e, alla fine, appariranno – assieme a tecnici, cantante e strumenti – nei titoli di coda che ricordano le “Robbe per la Comedia” nei canovacci della Commedia dell’Arte. Il pubblico non sembra sentire la mancanza della relazione con l’attore che ha segnato la riflessione dei grandi maestri del Novecento come requisito minimo e specificità teatrale.
Le atmosfere che si predispongono con continui cambi di scena, di luci e di suono, presentano, a volte, riferimenti concreti ed espliciti. È il caso dei fondali barocchi, in particolare quelli di un bosco rosso e di palme esotiche; oppure delle luci che, proiettate su tele con nuvole disegnate, sembrano ricreare i diorami di fine Ottocento con tanto di rumori temporaleschi in sottofondo. Anche la soluzione, estremamente suggestiva, delle foglie che cadono dall’alto è in grado di sollecitare ricordi di spettacoli passati o magari di nessuno, come se lo ‘sfaldarsi’ della graticcia fosse una possibilità archetipica del teatro. L’utilizzo dei fondali e delle proiezioni ricorda alcuni episodi di Tragedia Endogonidia della Socìetas, in particolare il #10 realizzato a Marsiglia, anche se, nel caso di OHT, il teatro è una presenza che si riafferma immagine dopo immagine.
I sipari si moltiplicano creando una prospettiva diagonale, un rinascimento inclinato, mentre il soprano, Dania Tosi, al centro del punto di fuga intona Beata Viscera di Pérotin, opera sul mistero dell’incarnazione nella Vergine. I giochi di luce e ombra e la voce della cantante che riverbera ci riportano alla caverna, antico simbolo di femminilità e primo luogo, secondo l’archeologo Yann-Pierre Montelle, di attestazioni performative. Le pitture rupestri, infatti, non sarebbero che il risultato grafico di un movimento del corpo, chiamato paleoperformance, generato attraverso un legame con il chiaroscuro della parete rocciosa illuminata da una torcia. 
Percorsi e direzioni in questo teatro molteplice si avvicendano senza soluzione di continuità, gestiti con un sapiente gioco di sottrazione e addizione di elementi nel vuoto dello spazio scenico. Una metamorfosi che sembra mettere a proprio agio lo spettatore. Questa trasfigurazione si materializza sul palco con una crisalide che diventa farfalla, metafora di un continuo mutamento che il teatro porta con sé dalla nascita, per sua incontrovertibile natura

“Che cos’è la verità? O meglio ancora cosa non è la verità?”. Così prende avvio The Mountain di Agrupación Señor Serrano, invitando, fin da subito, lo spettatore a riflettere sulla sottile provocazione. L’attrice Anna Pérez Moya continua a sollecitare il pubblico, ponendo al centro la questione cruciale della finzione e del suo intersecarsi con ciò che è, o sembra, oggettivo e reale. Indossando un completo da badminton, con tanto di racchetta, chiede a chi ascolta di stabilire un patto, di rendersi complice: “Se decidiamo insieme che questo gioco è baseball, stasera, per noi qui riuniti, sarà vero che sto giocando a baseball”. Questa non è però l’unica trasformazione: l’attrice sovrappone alla sua figura quella di Vladimir Putin, grazie ad una maschera digitale proiettata sullo schermo. In questo modo ridisegna il concetto di verità: il reale non è solo ciò che si vede, ma è soprattutto ciò che viene stabilito dal consenso, una conformità tanto pervasiva da oltrepassare la constatazione oggettiva dei fatti.

Nel frattempo, un corpo inanime giace, al centro del palcoscenico, ricoperto di neve e la sua immagine riverbera sui tre schermi di proiezione che lo accerchiano. Le videocamere lo riprendono e gradualmente mostrano la sua identità: è George Mallory, lo scalatore che ha perso la vita nel 1924 nel tentativo di conquistare l’Everest. Pezzo per pezzo viene ricostruita la sua storia, filtrata attraverso le lettere di sua moglie Ruth. Qualcosa li accomuna: lei studia il mito della caverna di Platone, lui desidera arrivare in vetta. Entrambi cercano di conoscere una realtà non immediatamente raggiungibile e percepibile: devono infatti uscire da un antro o andare sulla cima del monte più alto del mondo, per tentare di conquistarla.
È però davvero possibile giungere a una verità univoca, stabile e definita?
La vicenda di Mallory non basta per dare una risposta a simili domande, perciò la vita dello scalatore viene inaspettatamente mescolata con il racconto del panico generato da Orson Welles attraverso la lettura radiofonica di The War of the Worlds nel 1938. La creazione di intersezioni fra più piani drammaturgici riflette una modalità compositiva caratteristica della compagnia catalana: Agrupación Señor Serrano costruisce il proprio lavoro tramite un processo di stratificazioni continue. La sovrapposizione non riguarda solo la composizione dell’intreccio, ma si esplica attraverso l’utilizzo dei video e delle immagini proiettate: vengono ripresi in diretta i modelli in scala presenti sul palco, riproduzione di una città americana soggetta all’invasione aliena, creata da H.G. Wells.
Compare proiettato anche il volto dello stesso Welles e il pubblico assiste al confronto tra due discorsi da lui tenuti in momenti differenti della sua carriera: da una parte il giovane artista si dichiara artefice inconsapevole del panico generato, dall’altra il regista affermato rivendica la volontarietà del gesto compiuto per denunciare l’ossequiosa fiducia riposta dalla popolazione nei media.
Señor Serrano apre così una necessaria riflessione sul concetto di post-verità: le storie raccontate hanno unicamente valore in se stesse e chiedono di essere accettate così come sono trasmesse e raccontate, diventa ininfluente un’analisi logica e razionale del loro rapporto con gli eventi reali.
E tocca nuovamente allo pseudo-Putin tornare in scena per una “prova di democrazia”: vengono mostrate due notizie, una delle due è falsa, le luci in sala si accendono per permettere al pubblico, con alzata di mano, di votare quella che ritiene non veritiera. Però, proprio nel momento in cui ogni spettatore è pronto a esporsi, il gioco democratico viene interrotto: “siamo persone intelligenti”, dice il leader russo, non serve davvero sapere quale delle due notizie corrisponda al vero. Ciò che conta sono solo le lenti che filtrano la nostra percezione della realtà: “la montagna della verità è vuota”.

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