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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 10

Ogni progetto ha un suo orizzonte ultimo. Concludiamo il nostro percorso del workshop di critica alla Biennale Teatro 2021 nel segno di due articoli importanti: le interviste – curate dalla redazione tutta – a Stefano Ricci e Gianni Forte, Direttori del Festival. Li abbiamo incontrati negli ultimi giorni e, grazie alla loro generosa disponibilità, abbiamo ragionato insieme intorno al progetto avviato: dal lavoro della direzione artistica al ruolo di un’istituzione come La Biennale, dagli spettacoli in programma alla funzione delle masterclass; fino al contesto della scena italiana e internazionale e del mondo di oggi, esplorati con uno sguardo lucido al presente e al passato prossimo, ma anche attento al teatro di domani e a ciò che potrà essere in futuro.

Quale rapporto c’è tra la direzione di un Festival e la creazione artistica?
Non mi sono mai considerato un artista, semmai, semplicemente, un lavoratore. Da anni gestisco una compagnia, e l’attitudine, nel progetto sviluppato con la Biennale Teatro, è esattamente la stessa: mettersi al servizio di qualcosa. Fornisco un supporto che mi connota più come “operaio” che non come artista. In questa prospettiva, per me è fondamentale il ruolo delle masterclass: uno strumento per offrire concrete possibilità di lavoro ai giovani.

Avete infatti ribadito più volte l’importanza della sezione laboratoriale. Qual è la linea pedagogica di questa Biennale Teatro e quale idea di futuro la caratterizza?
L’idea di futuro è quella legata a una profonda riflessione: c’è qualcosa che non è stato più abitato nella dimensione teatrale, ovvero lo spazio del “confronto”. Negli ultimi anni, abbiamo patito un modus operandi per cui tutti coloro che escono dalle scuole di teatro sono gettati immediatamente in campo; salvo poi essere sfruttati e accantonati, nella continua ricerca di novità, di nuovi prodotti. Quindi, è necessario stabilire una piattaforma di riflessione e di confronto con quegli artisti che già vent’anni fa lavoravano pensando al futuro, che hanno preparato il territorio su cui oggi ci troviamo e di cui è indispensabile raccogliere i frutti. I maestri sono stati scelti perché hanno avuto la capacità di guardare lontano. Invece, constato che oggi tutto questo viene a mancare: non c’è più l’attitudine a una traiettoria ampia.

A proposito di ampliare lo sguardo, trova che il teatro internazionale possa arricchire la scena italiana?
È evidente che il teatro italiano e quello internazionale viaggino in direzioni differenti. Gli italiani sono “monologanti”, e non so se sia solo una questione di economie. C’è una tendenza, fiorita degli ultimi anni, a rinchiudersi dentro percorsi in solitaria, mentre all’estero c’è una spinta alla condivisione che non appartiene molto alla nostra cultura. Perché non riusciamo ad avere un approccio differente, per esempio per quanto riguarda l’arte dell’attore? In Italia, un attore affermato non reciterebbe mai se non in uno spazio borghese; e, al tempo stesso, c’è ancora una netta differenza fra teatro di ricerca e d’intrattenimento… Insomma, la situazione è complessa e molti sono gli spunti di riflessione su cui lavorare.

A quale regia, fra quelle che abbiamo visto questi giorni, si sente più vicino?
Sto imparando moltissimo guardando i colleghi, e questo è già una ricchezza assoluta, perché mi permette di comprendere diverse possibilità di approccio al fenomeno teatrale. Detto questo, sono più attento al processo che non al risultato, è la modalità di lavoro che mi affascina, indipendentemente dall’esito. Guardo al senso dello “stare” nel fare teatro, è l’insegnamento che ho ricevuto da un maestro come Luca Ronconi. Al nocciolo di questa prospettiva c’è il senso di responsabilità dell’artista. E quando riconosco una simile attenzione in altri artisti, mi sento a casa.

Cosa, a livello più personale, vi ha portato ad assegnare il Leone d’Oro a Krzysztof Warlikowski?
La sua erranza è qualcosa in cui mi riconosco: la curiosità di attraversare e non radicarsi, di mettersi continuamente in una posizione di confronto. Credo che questa lezione sia fondamentale, non solo per chi fa il nostro mestiere. Il non trovare casa è una condizione umana: essere esule ovunque, ma abitare la terra in cui lavori, cioè lo spazio scenico.

Qual è il suo rapporto con le “etichette”, alcune delle quali ancora perdurano?
Non ti riguardano ma ti toccano, anche prescindendo da te. Certo, ci sono dei segni che vanno oltre i miei intenti. Eppure, mi sono sentito a lungo come se quello che veniva dato al pubblico fosse diverso rispetto al mio obiettivo originale, come se il pubblico arrivasse con delle “lenti deformanti” a cercare qualcosa che aveva già, che era nell’aria. Ben presto, non mi sono riconosciuto in questa modalità. Ho scelto dunque di allontanarmene, dedicandomi ad altri progetti, andando alla ricerca di territori altri, come la lirica, la televisione e il cinema, che per me sono campi nuovi, tutti da esplorare.

Come la componente artistica entra nella direzione di un Festival come la Biennale Teatro?
Non lo saprei dire, abbiamo tracciato questo percorso concentrandoci su una specifica dimensione progettuale: l’idea è di incentrare questa “tetralogia” sulla circumnavigazione, sull’esplorazione dell’uomo e delle sue labirintiche e complesse sfaccettature. Come se la matrice tematica fosse una contemporanea Comédie humaine alla Balzac, fusa nei quattro colori, principi attivi che dovrebbero contaminare emotivamente e rendere questa Biennale Teatro una polveriera esplosiva di emozioni. Se questo sia artistico non lo so. Direi che è anzitutto una scelta etica, politica, che poi diventa anche artistica.

Come si passa da essere “guastatori non allineati” a direttori della Biennale Teatro? Come cambia il senso e il peso della responsabilità?
Non si “passa”: siamo ancora “guastatori non allineati”, e lo siamo sempre stati. Prima eravamo gli enfants terribles del teatro contemporaneo, ora siamo ancora terribles, anche se non più enfants. Continuiamo a stare sempre fuori dalla cornice – è una modalità che ci appartiene –, ma non per fare provocazioni fini a se stesse. Il senso di responsabilità rimane immutato: se prima decidevamo solo per la nostra compagnia, ora la funzione si estende alla cura dell’offerta complessiva che presentiamo al pubblico della Biennale Teatro. Ma il dovere, l’impegno, è lo stesso.

Cosa può dare il teatro italiano al teatro internazionale e viceversa?
Tantissimo. Vivendo a Parigi, ho la possibilità di vedere tanto teatro internazionale, compresi gli artisti italiani che sono riusciti a “valicare le Alpi”. Riflettendo su quanto è capitato anche alla nostra compagnia nel passaggio dalla scena nazionale a quella europea, credo che le strutture italiane dovrebbero investire maggiormente nell’invitare e ospitare gli operatori stranieri. Sarebbe una chance importante – non solo per gli artisti più giovani –, e nel contesto della Biennale Teatro ci piacerebbe poter offrire sempre più un contributo in questo senso.

La Biennale investe molto sul futuro, con il progetto College e i bandi riservati ai giovani artisti. In questo quadro, che teatro immagina da qui ai prossimi quattro anni? 
Non so cosa accadrà in futuro. Ci collochiamo in una sorta di “staffetta” rispetto ai direttori che ci hanno preceduto. In questo contesto, per le prossime edizioni, ci piacerebbe poter aumentare il numero delle masterclass, perché – nonostante ci considerassero appunto degli enfant terribles – per noi la formazione è sempre stata molto importante. Con lo studio, si diventa delle piccole “vedette lombarde”: salendo sulle spalle dei “giganti” del passato e del presente, è possibile guardare oltre l’orizzonte e continuare a combattere la barbarie che ci assedia. Crediamo molto nel lavoro pedagogico e nell’importanza dei maestri. Poi, naturalmente, una volta apprese le regole, i canoni vanno cambiati, distrutti, rimontati.

Che cosa rappresenta il Leone d’Argento a Kae Tempest?
Fino a non molto tempo fa, pochi in Italia conoscevano Kae Tempest. Ho avuto modo di conoscerne l’opera a un concerto alla libreria Shakespeare and Company di Parigi. C’era un’affluenza di pubblico incredibile, nemmeno una partita di calcio ha una simile presenza! La strada antistante era piena di gente, tanto che hanno dovuto installare degli altoparlanti. Questo mi ha incuriosito molto. Ho cominciato a leggere: il romanzo, le pièce, le poesie… Abbiamo ritenuto che fosse arrivato il momento giusto per dare un segno forte in questo senso. Come diceva Picasso per la pittura – “i quadri non sono solo oggetti da appendere, ma armi potentissime” –, anche la poesia è un’arma rivoluzionaria, pacifica ma furiosa, che ci permette di rimanere vigili.

A quale drammaturgia, fra quelle in programma, si sente più vicino?
A nessuna nello specifico, ma in ciascuna di esse c’è qualcosa che sento affine. Mi trovo in un momento importante del mio percorso, in un passaggio in cui si stanno profilando diversi cambiamenti. Senza rinnegare in alcun modo il passato, sento che ci sono delle trasformazioni in atto. Ancora non so quali saranno precisamente gli esiti, quello che so è che sono sempre più proiettato verso la parola e lo stupore poetico.

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