Nel 1923 Aby Warburg tenne una conferenza presso il sanatorio psichiatrico di Bellevue a Kreuzlingen, per dimostrare di essere finalmente libero dai suoi demoni. In quel momento cruciale, davanti a medici e pazienti, il padre dell’iconologia moderna volle testimoniare non solo il superamento del suo stato psicotico, ma anche il percorso interiore e intellettuale che l’aveva condotto a ritrovare un equilibrio.
La trascrizione della lezione di Kreuzlingen è il celebre saggio Il rituale del serpente, in cui lo studioso ripercorre il suo viaggio nel Nuovo Messico di tre decenni prima. Qui Warburg entrò in contatto con il mondo rituale degli indiani Pueblo, in cui riconobbe un punto d’incontro fra magia e logos.
Le immagini tratte da questi cerimoniali svelavano, a suo parere, l’origine pagana e simbolica della danza mascherata: un tentativo di rispondere al mistero delle forze naturali trasformandosi nella loro causa. La danza non era solo espressione o rappresentazione, ma un vero e proprio atto di causalità danzata per divenire parte attiva – e causante – nell’ordine del mondo. La danza delle Antilopi a San Ildefonso e la danza dei Moki celebrata in agosto durante la siccità, intrise di forza ancestrale e sacrale, gli ricordarono la potenza tragica del teatro antico, con la sua tensione tra elementi dionisiaci e apollinei, tra coro e dramma. “Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero”, affermò Warburg nella sua prolusione. Era stato, il suo, un viaggio tra gli archetipi.
Il mito è elemento fondativo dell’umanità, a ogni latitudine. Il mito spiega e dà origine al mondo attraverso la voce dei poeti e degli artisti. Il mito è la realtà tangibile del Divino, fiume perenne nella vita dei mortali.
Quando Sir Wayne McGregor ci ha per la prima volta informato dell’idea di voler articolare il suo prossimo Festival sul tema degli artisti come creatori di miti, alla Biennale di Venezia abbiamo avuto ulteriore conferma della comune sintonia di intenti e visioni.
In quanto universale, il mito è psiche e azione nella forma essenziale, conflitto tra Apollineo e Dionisiaco, dunque umanità pura. E si innesta nella danza così come in tutti gli antichissimi rituali propiziatori, agli albori di ogni arte. Ecco perché affermare che gli artisti sono – anche inconsapevolmente – creatori di miti non solo è filologicamente corretto, ma è l’attitudine necessaria per divinare il futuro.
“Attraverso il movimento, l’azione e il significato, gli artisti del 19. Festival Internazionale di Danza Contemporanea hanno creato miti moderni e trasformativi”, dice Sir Wayne McGregor nel complesso e sorprendente programma Creatori di miti. Per sopravvivere ai cambiamenti repentini e laceranti è necessario identificarsi in forme che seppure travestite dallo spirito del tempo appaiono ai nostri occhi riferimenti immutabili. La ricerca del Direttore Artistico del Settore Danza si è rivolta all’affascinante processo di permanenza nel cambiamento, che è la forza e la potenza del mito, da sempre presente, inevitabilmente contemporaneo e perciò eterno nel fluire dei giorni dell’umanità.
È il fuoco senza quiete della vita di tutti pur mortale, è il prodotto spontaneo della psiche collettiva, forse istintiva ma meravigliosa menzogna su chi siamo, su ciò che lasciamo, su ciò che troveremo: la nostra stessa coda, per dirla con Tiresia quando – profetando – stacca due serpenti avvinghiati nell’amplesso. Per essere l’uno e l’altro. Nel malinconico desiderio dell’irrealizzabile.