fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 8
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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 8

Il diario di viaggio del Festival si arricchisce di nuove coordinate e di nuovi luoghi da esplorare, grazie ai workshop e alle performance site-specific, novità di questa edizione. Giudecca, Ca’ Giustinian, San Marco, Palazzo Grassi, Campo Santo Stefano, il litorale del Lido: la Biennale Teatro si dirama in tutta la laguna e, come novelli cartografi, cerchiamo di raccontare i territori che ci hanno accolto in questi ultimi giorni. Si scoprono la memoria del corpo, l’importanza del training, l’arte della riscrittura che si fa voce, e si assiste a creazioni che scuotono dolcemente le fondamenta della città.
In un’era di gps e Google Maps, a volte, ci perdiamo ancora, ma anche questo fa parte del viaggio.

Si tracciano nuove coordinate per ridefinire gli spazi urbani in una forma artistica inaspettata: sono in scena le performance site-specific, una delle novità dell’edizione BLUE della Biennale Teatro 2021. I due progetti vincitori, selezionati dai direttori del Festival, vengono proposti al pubblico nello stesso momento, ma in luoghi differenti della città.

Ore 18.00
Coordinate 45°24'27.7"N, 12°21'47.0"E

Riva di Corinto, Lido di Venezia. Pochi alberi, poche persone. Lo sfondo è ‘discorde’: a destra, l’inconfondibile skyline di Venezia; a sinistra, in contrappunto, Marghera, con le fabbriche dalle ciminiere ‘gotiche’. Da una piccola imbarcazione ormeggiata al molo proviene una musica techno avvolgente. Ci si avvicina con discrezione e, a bordo, si vede che sono in quattro, coperti totalmente dal zentai (una tuta integrale aderente), con occhiali da sole, costumi e accessori BDSM. Sono i Transghost, esseri dalle fattezze umane che popolano i luoghi lasciati vuoti da un anno e più di pandemia. Nella loro barca, con la musica della dj Gigo8931, danno vita a una festa esclusiva, una parodia delle grandi soirée che animano Venezia durante i vari festival. Si assiste così, in un luogo di mare insospettabile, alla performance On a Solitary Beach del collettivo –ness (Rooy Charlie Lana e Giulia Zulian). I quattro personaggi (interpretati dai –ness e da Eleonora Bomben e Alessia De Francesco) si muovono sinuosi, in un continuo rito bacchico dei nostri tempi. Con un ritmo ‘slow-motion’, i festaioli prendono dei gonfiabili dai colori sgargianti a forma di ciambella, unicorno, papera. I galleggianti diventano l’oggetto del desiderio di alcuni di loro, con sessioni di bondage e amplessi melliflui, oppure assumono il ruolo di medium attraverso cui scambiarsi effusioni.
Il party-boat culmina con l’invasione dei salvagenti nell’imbarcazione, in un furore estatico perennemente controllato, ma dirompente. La festa è fuori dalla giurisdizione dei benpensanti; è una fuga momentanea di cui il pubblico diventa voyeur ben accetto, necessario. La performance, curata e coinvolgente, è un inno ‘all’Aria’, di cui i gonfiabili sono un’ironica sineddoche. Una volta terminato il “processo Transghost”, la Riva torna placida e imperturbabile. (E.A.)

Ore 18.00
Coordinate: 45°25′57.97″N, 12°19′47.78″E

La quotidianità della facciata laterale di Palazzo Loredan in Campo Santo Stefano viene alterata dalla performance di Stellario Di Blasi AB IMIS/iolagemmainnestai. L’accostamento tra il gusto classico dell’edificio e la potenza del linguaggio performativo crea un cortocircuito: spariscono le congiunzioni temporali e tutto vive in un eterno presente.
“Aiutatemi! L’oceano mi ha gettato su un’isola deserta. Sto sulla sponda e aspetto”, questo il grido dell’artista messinese a cui la creazione vuole rispondere. Navighiamo a vista nell’arcipelago di Di Blasi che varia più volte il rapporto con lo spettatore: ci lascia entrare nel suo intimo attraverso il linguaggio corporeo, gli sguardi e le foto dei familiari, ci si nega quando indossa una maschera.
Il performer è trattenuto da un peso che lo ancora, inizia a prendere dei jeans da un cumulo di vestiti con cui crea una corda simile a quella degli evasi per scappare di prigione. Finalmente riesce ad afferrare lo zaino e, dopo una danza con l’oggetto, si sdraia, apre la zip e fuoriescono piccoli palloncini. Difficile non emozionarsi di fronte a una involontaria ma riuscitissima immagine di libertà: i bambini, radunati fuori dallo spazio allestito dalla Biennale, si alzano per afferrarli prima che volino in cielo.
Alla fine della performance torna la partecipazione collettiva. Il mucchio di abiti nasconde un ammasso di plastica. Il danzatore prende il cumulo di spazzatura e lo trasporta con una catena. Nel suo sforzo si incarnano tutte le nostre debolezze. Un nuovo Sisifo che trascina il masso dell’insolenza umana: la battaglia contro l’inquinamento ambientale, da cui sembriamo incapaci di fuggire, è ancora ben lontana dall’essere vinta. (E.R.)

Venezia in questi giorni è invasa da artisti partecipanti ai workshop più diversi: si disseminano tra le isole, le calli e le corti della città.
Abbiamo avuto l’opportunità di introdurci in queste fucine di lavoro creativo, di osservare quello che succede al loro interno. Serve un esercizio costante per condurre il corpo oltre l’ordinario, verso la creazione scenica. Un esercizio che i giovani professionisti della Biennale College Teatro hanno avuto l’occasione di approfondire, e noi di raccontare.  

6 luglio, Giudecca, Centro Teatrale di Ricerca (CTR)
Arrivo alle undici al CTR e mi accoglie il silenzio della sala dove Danio Manfredini e gli allievi stanno risvegliando il loro corpo. Dopo questo primo momento di calma, inizia il training sull'uso e sulla consapevolezza della propria fisicità. Musica ad alto volume, ritmi diversi e canzoni più o meno note. L’attore davanti alla classe mostra i gesti che i giovani artisti cercano di replicare. Gli esercizi oscillano tra struttura fissa e mobile, servono a percepire diversi principi fisici come leggerezza, pesantezza, velocità ma anche femminilità e virilità. L'utilizzo della musica aiuta a creare delle sensazioni e a porsi in ascolto continuo, a entrare dentro la materia e a percepirla. Manfredini definisce il suo corpo come un labirinto, e il compito dell'attore deve essere ricercare la propria via d'uscita. (F. R.)

7 luglio, San Marco, Conservatorio di Musica Benedetto Marcello
“I cantanti non hanno un corpo, sono un corpo”: mi corregge con queste parole una soprano che partecipa al laboratorio del Direttore d’orchestra Riccardo Frizza, del regista Leo Muscato e dell’attrice e acrobata Nicole Kehrberger. Il loro scopo è spingere gli allievi oltre l’utilizzo della voce per integrare le proprie performance con possibilità interpretative e fisiche – una sfida a cui sono chiamati anche dalle nuove produzioni operistiche. Nel giorno in cui osservo il loro lavoro, Kehrberger conduce la classe con esercizi focalizzati sulla memoria fisica. Gli allievi camminano nello spazio mentre vengono guidati ad assumere l’incedere di una determinata età. Ringiovaniscono attingendo ai loro ricordi passati: rotolano, corrono e cadono. Per invecchiare, cercano di imitare una persona che hanno osservato, oppure saltano uno sopra l’altro per ingobbirsi e rallentare. Una volta “attraversata” tutta la vita, Kehrberger riattiva la memoria fisica chiamando un’età dopo l’altra. Tutti eseguono con impegno e dedizione, senza cantare. È vero: i cantanti sono un corpo. (E. R.)

7 luglio, Giudecca, Spazio TočnaDanza
Conducendomi al laboratorio tenuto da Adrienn Hód, l’assistente di produzione mi anticipa: “I ragazzi stanno facendo training”. La mia immaginazione corre fiaccamente a minuziosi e ripetitivi esercizi. Entrato nello spazio, trovo però una situazione imprevista: quattro coppie di persone si esercitano al contatto fisico; gli occhi chiusi, nessuno scambio verbale. La coreografa ungherese sovrintende con lo sguardo, dando brevissime indicazioni intervallate da lunghi silenzi: innescate una relazione, intensificatela, abbandonatela. In questo consiste lo scarto rispetto alle pratiche di riscaldamento tradizionale. Ogni rapporto, infatti, è animato da una differenza di potenziale in grado di generare vere e proprie drammaturgie: due amanti isolati nella loro passione, una coppia adulta attraversata da una malcelata crudeltà, una madre e un figlio che giocano, un ragazzo e una ragazza curiosi di esplorare al di fuori di sé. Durante la restituzione, i partecipanti condividono le proprie sensazioni, verbalizzando quella che Hód definisce “memoria dei corpi”. Risulta evidente, allora, come il compito proposto non miri soltanto alla creazione di un soggetto, ma soprattutto alla sollecitazione di una potenza rappresentativa insita in ognuno dei danzatori. “Grazie. Ho visto drammaturgie davvero ricche”, dico in un inglese incerto. “Perché i ragazzi lo sono”, mi risponde Hód. (M. V.)

C’è qualcosa di imprevedibile e squisitamente teatrale nel cercare di tradurre l’oscurità processuale di un testo, nel provare ad addentrarsi nelle misteriose dinamiche della composizione. Abbiamo sbirciato silenziosamente una giornata dei workshop di Galatea Ranzi e Chiara Guidi e di Martin Crimp, spiando i nostri coetanei al lavoro, immedesimandoci nei loro esperimenti e scoprendo la bellezza nascosta del momento preparatorio. Abbiamo compreso l’importanza di ritornare, riscrivere e ripetere.

6 luglio, San Marco, Foyer del Teatrino di Palazzo Grassi
Il workshop di Guidi/Ranzi è una sfida sperimentale, l’incontro insolito fra due donne di teatro, maestre ai poli opposti ma complementari. La giornata dei partecipanti al laboratorio inizia la mattina alle 9, nel bianco foyer del Teatrino di Palazzo Grassi: sono riuniti attorno a un tavolo con generi di conforto vari ed eventuali, unico punto comune le pagine consumate, sottolineate e scarnificate de Le Onde di Virginia Woolf. Galatea Ranzi, seduta in mezzo ai giovani attori, non perde mai la sua mistica ascendenza, riflettendo in maniera metodica sulla parola, permettendo ai partecipanti di costruire la loro personale e funzionale versione dei personaggi narrati dalla Woolf. All’improvviso, uno dei ragazzi, per migliorare la sua interpretazione, viene invitato a correre negli spazi del teatro, i suoi passi cadenzati scandiscono il tempo. Il metodo impone a Galatea Ranzi di correre lei stessa e, mentre si appoggia contro la parete bianca per riprendere fiato, i suoi occhi assorti e i capelli scomposti mi riportano alla sua figura in scena, eterea e irraggiungibile, seppur lì, a pochi passi. 
Nel pomeriggio l’atmosfera si capovolge. Chiara Guidi non fa in tempo a iniziare a parlare che subito costringe i ragazzi ad alzarsi. Lo sforzo fisico richiesto è costante, la voce viene espansa e ristretta, come una forma d'impasto che si può tirare e ricomporre a piacimento. Assisto all’esponenziale allargamento della spazialità vocale dei partecipanti, un miracolo pedagogico. La fine della giornata è dedicata al colloquio, momento prezioso per carpire l’esperienza sapienziale di una maestra; il dialogo si concentra con forza sul bisogno di un teatro di rottura che parta dallo studio, dalla calma e dall’errore: lezione inaspettata e necessaria in tempi concitati come questi. (M. D. G.)

7 luglio, San Marco, Sala delle Maschere di Ca’ Giustinian
I giovani drammaturghi selezionati per il workshop tenuto da Martin Crimp mi accompagnano nella luminosa stanza di Ca’ Giustinian dove stanno lavorando sulle Metamorfosi di Ovidio. Il processo creativo della produzione teatrale dell’autore è spesso legato alla pratica di riscrittura del mito greco e latino come valido meccanismo di chiarificazione e di indagine di una realtà contemporanea problematica, critica e conflittuale.
Il drammaturgo britannico decide di partire dal mito ovidiano che racconta di Biblide, del suo amore proibito per il fratello Cauno e della trasformazione finale in una fontana. A partire dalla lettura di questi versi chiede ai suoi allievi di lavorare sul ruolo del poeta, inscenando un processo il cui imputato è Ovidio – ovvero l’arte della scrittura –, per aver raccontato del desiderio incestuoso manifestato da Biblide.
Crimp divide i ragazzi in tre gruppi: il primo è costituito dalle divinità, ovvero i giudici del tribunale; il secondo è composto invece da Ovidio, dal suo avvocato difensore e dalla giovane di cui si narra nelle Metamorfosi; il terzo gruppo presenta gli stessi personaggi, questa volta però il poeta non sostiene più la sua libertà di espressione ma si mostra pentito per il danno subito da Biblide a causa di quel che ha scritto. Dopo di che ha inizio il processo: il vero imputato non è Ovidio, ma la poesia stessa.
Con questo esercizio, Crimp cerca di stimolare nei giovani drammaturghi una riflessione sul compito dello scrittore: cosa è concesso dire nelle proprie opere? Quanto la realtà deve essere modificata nel momento in cui viene trasposta in letteratura? Cosa significa utilizzare il mito per parlare dell’oggi? (A. S.)

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