Come può il presente essere scomodato dai corpi teatrali, che irrompono sulla scena e ne scardinano i confini? Il corpo critico si pone questa domanda collocandosi su una soglia: quella tradizionalmente presente all’interno dello spazio teatrale, tra attori e spettatori; quella che è praticata dalla critica, tra l'esterno e l’interno del discorso artistico; quella tra un prima e un dopo.
ll passato illumina le zone d’ombra del presente, e la memoria – come ha detto Thomas Richards nel suo intervento per la tavola rotonda Biennale ‘75 - ‘25: cinquant’anni di nuovo teatro – “prende qualcosa e la porta fuori dal tempo; lo fa per una ragione, anche se ancora non lo sa”. Comprendere le ragioni della memoria per abitare la scomodità del presente: questo è il compito che ci siamo date.
Matilde Sofia Callegari
Poche ore fa mi trovavo davanti alla Scuola elementare del teatro, la compagnia di Davide Iodice, composta da persone con disabilità e non. È arrivata sul palco di Biennale Teatro con Pinocchio. Che cos’è una persona?, uno spettacolo che ha debuttato oramai un anno fa.
Guardando bene questi “Pinocchi” sul palco delle Tese, mi sono appuntata quanto segue:
“eccezionale gravità e leggerezza
eccezionale energia,
eccezionale controllo dell’imprevedibilità dell’azione”
Questi appunti parlano chiaro: tutti gli insegnamenti che Julia Varley, Else Marie Laukvik ed Eugenio Barba hanno dato ai giovani attori del workshop da loro condotto per Biennale College Teatro nelle ore in cui mi hanno ospitata, li ho trovati davanti a me, praticati e incarnati con perizia e perfezione tecnica dalla Scuola elementare di Iodice.
Il lavoro che l’Odin Teatret fa sull’attore, specialmente se è da poco al mondo, è convertire il lieve in duro, il gesto spontaneo in gesto artificiale; la nota pratica ricordata da Barba stesso durante il laboratorio con cui faceva stare i suoi allievi sulle punte per ben quattro ore non serviva altro che a questo: convertire il corpo giovane insensibile alla gravità in soggetto attivo nella gravità. E io sono convinta che se Barba avesse visto quei “Pinocchi” avrebbe immediatamente riconosciuto sul palco dei grandi attori.
L’eccezionalità annotata sul movimento fisico dei “burattini” l’ho rilevata anche nella loro voce: “Battute nelle budella”, ho scritto. Mentre recitavano, mi sono accorta di questo singolare e forte punto di adesione tra recitazione e movimento, mi sono accorta, cioè, che il corpo in scena era in qualche modo fontale, originario, sorgivo. Mentre segnavo l’appunto ho pensato a Julia Varley quando, il giorno prima, aveva letteralmente messo sottosopra uno dei ragazzi del workshop perché recitasse a testa in giù. Al giovane attore, l'esercizio, che aveva il fine di demolire il muro tra gesto e suono, non riuscì, e non stento a credere che gli sarebbero servite parecchie ore perché gli uscisse una voce storta e capovolta, com’era in quel momento la sua bocca. Al contrario, il corpo attoriale della Scuola elementare del teatro non aveva sul palco una sola battuta che fosse recitata fuori dalle ossa, fuori dalle storture dello spartito anatomico. Senza pigrizia, abitava il proprio segno, abitava il proprio corpo, in modo totale.
Capii a quel punto la reazione severa di Davide Iodice durante un incontro col pubblico a Ca’ Giustinian, il giorno prima della messa in scena di Pinocchio. Il regista troncò sul nascere una domanda che forse gli sembrava indirizzata verso un territorio etico inconciliabile a quello della sua ricerca artistica: vietato qualsiasi sentimentalismo sul tema!
Quando il segno diventa stigma? Quando chi ti guarda ha pietà e compassione.
Quando il segno non sbocca nello stigma? Quando un regista come Iodice – con tanto acume, integrità e precisione – lascia i suoi attori abitare favorevolmente, cioè secondo verità, i segni precipui del proprio corpo.
Gli ultimi giorni dell’umanità. Quattro stazioni per non dimenticare, firmato da Antonio Latella, è parte di un progetto più ampio ospitato da Biennale College Teatro, che si articola in cinque spettacoli con gli allievi attori del secondo anno dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Il nome dell’operazione è www.wordworldwar.bomb e raccoglie le cinque creazioni di altrettanti registi. A iniziare è lo stesso Latella, con una drammaturgia di Federico Bellini a partire dall’opera di Karl Kraus: si tratta di un corpo estraneo nella letteratura teatrale del Novecento perché è tra i pochi testi in grado di trasmettere l’irrappresentabilità del primo conflitto mondiale – senza consolazioni né abbellimenti. Kraus restituisce, infatti, attraverso un caleidoscopio di voci, stili e generi, tutte le atrocità della guerra e di quella in particolare.
Già Luca Ronconi, nel 1990, si era confrontato con il testo del drammaturgo e poeta austriaco portandolo in scena negli spazi giganteschi del Lingotto di Torino: grazie al dispositivo della simultaneità e ad alcuni tagli, il regista riuscì ad allestire in poco meno di quattro ore la messinscena di un’opera di più di duecento scene e che idealmente ne poteva durare circa quindici. Antonio Latella, che con Ronconi ha collaborato, fa della Sala d'Armi dell'Arsenale una sorta di campo di addestramento per attori. Non solo assistiamo a un’imposizione del testo su chi è chiamato a recitare – sono “costretti a una vera e propria maratona di parole”, dichiara lo stesso regista –, ma anche come pubblico viviamo una “forzatura” della nostra presenza nello spazio, perché le luci in sala restano accese per l’intera durata della messinscena, costringendoci a un dialogo attivo con gli attori e impedendoci di trovare conforto nel buio rassicurante che solitamente avvolge la platea.
Siamo tutti e tutte coinvolte – obbligate ad assumere una postura scomoda sia che ci venga data la parola o meno, gli attori come gli spettatori. L’impressione, osservando lo spettacolo lungo i tre atti, è che per Latella corpo e testo siano un tutt’uno: il pubblico si ritrova a far parte di un’armata silenziosa e compatta che scruta chi è chiamato a svolgere il difficile compito attoriale. La tensione tra i due schieramenti diventa terreno per uno scambio interessante, aumentando il grado di difficoltà per gli allievi in scena che vestono e svestono i panni di decine di personaggi, i quali nascono, ritornano o muoiono continuamente.
Un ulteriore elemento di “scomodità” per il corpo dell’attore sono certamente le scarpe. S’inizia con quelle da tip tap, che, con il loro ticchettio, mi “riportano” sull’isola del Lazzaretto Vecchio, ai suoni realizzati da Scott Gibbons per I mangiatori di patate di Romeo Castellucci, a quelle atmosfere spagnoleggianti che evocavano la musica delle nacchere e si mescolavano al suono metallico, ritmico, che ricordava i colpi di una mitragliatrice. Si arriva, poi, ai tacchi alti che gli attori della “Silvio d’Amico” portano nella coreografia finale, danzata su Deutschland dei Rammstein, un gruppo musicale di Berlino noto per l’estetica provocatoria e le influenze industrial metal. La canzone, che ripercorre la storia della Germania in duemila anni e ha generato diverse polemiche al momento della sua uscita, esprime un senso ambivalente di amore e di condanna nei confronti della patria. In particolare, risuona più volte all’orecchio di chi assiste allo spettacolo la frase Deutschland über allen, lievemente diversa rispetto a Deutschland über alles (previsto dall’inno nazionale del 1841); questo passaggio dall’accusativo al dativo plurale fa slittare il senso della frase da: “Germania al di sopra di tutte le cose” a “Germania al di sopra di tutti gli altri” (individui e nazioni), rimarcando un cambiamento di significato verificatosi durante il periodo nazista con il rafforzarsi dell’ossessione di una supremazia militare e ideologica. Un accenno provocatorio, forse inserito come stimolo morale, che ci interroga sul senso di responsabilità. Come sollecitava Richard Schechner, durante la Tavola rotonda intitolata Biennale ’75 - ’25: cinquant’anni di nuovo teatro, è necessario ricordarsi che anche oggi, fuori dai teatri, tutto brucia.
Pare che gli antichi Greci, ancor più della morte, temessero l’oblio, così chiedevano alla dea Mnemosine, divinità della memoria, di essere onorati con una vita memorabile. Le Muse, sue figlie, erano da lei incaricate di proteggere, preservare e trasmettere la cultura e la storia. Grazie alla divinità, numerosi eroi e personaggi del passato sono ora immortali, le loro gesta vivono ancora nella memoria della gente che li ricorda.
Salite le scale delle Officine, ampio spazio semi-abbandonato situato a Forte Marghera, mi trovo di fronte a una sala inaspettatamente arredata: il tessuto soffice di un divanetto mi accoglie, la cucina è blu cobalto, c’è uno specchio che sembra antico e delle spillette, gialle, posate su un tavolino – dettagli delicati in contrapposizione con il duro contrasto del grigio cemento delle pareti. Lo spazio adiacente è un’altra sala, più piccola; ci si entra oltrepassando una porta di legno scuro, rovinata dai segni del tempo. C’è un tappeto danza, degli spalti in legno chiaro con cuscini neri e un tavolo rettangolare lungo due metri, forse più. Oltre la soglia si svolge un rituale: a un capo del tavolo siedono Giorgio Sangati e Sandra Toffolatti, maestri e “sacerdoti” della dea Mnemosine; a loro spetta la responsabilità di rievocare l’eredità di Luca Ronconi e i passi che lo portarono a studiare la figura femminile nel teatro.
Per il laboratorio, svolto dal 31 maggio al 5 giugno durante la Biennale College Teatro 2025, Toffolatti e Sangati hanno reclutato otto giovani attrici per affrontare con loro il percorso che le renderà muse, portatrici di memoria. “Lasciate che io vi racconti, o miei prodi, quel che abbiamo passato prima di arrivare fino a voi…”: una giovane attrice interpreta Shalek, personaggio teatrale di Karl Kraus estratto dagli Ultimi giorni dell’umanità. L’acquisizione della memoria attraverso il corpo è cominciata. La voce dell’attrice pervade la stanza, il corpo si dimena, cerca di divincolarsi dai contorni plastici della sedia gialla che lo trattiene, il volto diviene corrugato, lo sguardo accigliato; le braccia, dapprima conserte, sono vittima di una tensione costante, irrigidite, piegate, contorte fino alla punta delle dita. Al termine dell’interpretazione il respiro è affannoso e il corpo, prima scomodo, ora è stremato; adesso non è più solo una giovane donna, è anche una donna anziana, sola, una madre, una vedova, una giornalista. Trasuda, l’epidermide, quelle che sembrano essere gocce di rugiada, lacrime, figlie di un “ardimento personale” – come direbbe Shalek – che si posano sulla congiuntiva; poi, spinte dalla forza di gravità, cadono. Il bozzolo si è schiuso, la trasformazione è terminata, l’attrice è diventata musa.
È giunto il tempo di andarmene. Raccolgo le mie cose, saluto e, un passo dietro l’altro, ripercorro la stessa strada che avevo fatto poche ore prima. Ho assistito a una trasformazione, una magia. Dentro di me è nato qualcosa di nuovo, nella mia testa risuona ancora la voce dell’attrice o forse quella del suo personaggio Shalek; sento anche la voce dei maestri, frammenti. La memoria che hanno condiviso fra loro è involontariamente divenuta un po’ mia: anche io ho subito una trasformazione, diventando, come per magia, una testimone della memoria ronconiana.