Si chiama “esito” nel senso di “uscita”: testi che, nella loro iniziativa, esprimono le libere traiettorie di ogni partecipante al workshop, a cui corrispondono, anche, le strategie in-between – parimenti molteplici – che in varia misura ora verificano quanto praticato in questa esperienza all’interno dei nostri diversi quotidiani, a cui siamo tornate, oltre il tempo del laboratorio.
Cosa tiene insieme questi esiti e cosa tenere di quanto messo in atto?
Forse – pensiamo altrettanto liberamente – quello che qui manca. Così, vi invitiamo a leggere – e, dunque, a rileggere – anche gli spazi vuoti tra gli articoli, l’importanza dei silenzi in una conversazione collettiva, tutto ciò che resta fuori da un testo come dal teatro, eppure c’è.
“Esito” si prende la responsabilità di aprire un prezioso quanto difficile “frattempo” nella realtà, mentre ciò che non si può depositare su pagina si innerva sotto pelle, forse per un esito secondo, altrove, respirato in tempi più lunghi, da sole e insieme.
Roberta Ferraresi e Massimo Milella
“La creatività è una qualità importante, antica ma sempre più cruciale anche per il futuro, e corrisponde alla capacità di porsi continuamente domande…”
(Piero Angela e Massimo Polidoro, La meraviglia del tutto, Mondadori, 2024)
Quanto è importante uno sguardo? Quanto, una percezione? E come si possono tradurre in linguaggio critico? Cosa permette di decodificare quello che osserviamo? Stiamo restituendo al lettore un’esperienza quantomeno nella sua totalità o stiamo solo esprimendo una nostra opinione? Come possiamo raccontare ciò che accade nel rispetto del tempo storico in cui avviene?
Cos’è la critica? Chi è un critico?
La critica, secondo la Treccani, è il “complesso delle indagini volte a conoscere e a valutare, sulla base di teorie e metodologie diverse, i varî elementi che consentono la formulazione di giudizî sulle opere dell’ingegno umano”. Il fatto che tale operazione venga definita come un “complesso di indagini” colloca la figura di chi la pratica nella condizione di un ricercatore impegnato nel carpire i dubbi viscerali dell’essere umano, per trasmetterli nel modo più chiaro e rigoroso possibile alla società. Per Kant, sempre secondo la Treccani, si tratta di un “processo attraverso il quale la ragione umana prende coscienza dei proprî limiti”: un’opera di avanzamento quindi, un viaggio nel quale ogni passo mosso ha un’importanza fondamentale nell’obiettivo di aprire una strada possibile, fatta di sentieri tortuosi e pieni di pericoli. In un incontro, il critico e dramaturg Andrea Porcheddu ci ha parlato dell’atto della critica come impegno politico e sociale: “cerchiamo di capire lo spettacolo come sintomo del mondo”.
Quante volte abbiamo sentito dire che il teatro sta scomparendo, che il pubblico, sempre più disaffezionato, lo diserta e che addirittura la critica è morta. Eppure, Apollo, dio della verità obliqua, chiede a chi pratica le arti della scena di mostrare questa verità senza accecare, di porre fra lo spettatore e lo spettacolo un filtro, una “quarta parete” che spetta anche al critico abbattere – un lavoro scomodo, difficile e talvolta rischioso. Mostrare la verità non significa portare attraverso l’arte un ipse dixit, ma far venire alla luce l’inquietudine e il cupo riverbero dei tempi storici di cui siamo testimoni. In una società sempre più anestetizzata dall’enorme quantità di immagini e resa passiva e insensibile di fronte all’oscurità dell’essere umano, l’arte, l’opera, la scrittura, il teatro non sono intrattenimento ma rivolte, pratiche collettive di resistenza partigiana che vogliono sollevare quell’opaco velo che la collettività odierna, troppo individualista, si ostina a mantenere.
La penna è l’arma attraverso la quale il critico esercita la critica stessa, l’inchiostro macchia indissolubilmente la bianca carta, così come le anime e la storia. Cosciente dei suoi limiti, come dice Kant, e astante compulsivo del mondo che lo circonda, il critico, oltre che come spettatore-ricercatore, può (deve?) porsi dinanzi all’arte come testimone, da terstis, colui che “sta terzo”. Come osservatore di una situazione presente e irripetibile, ha la responsabilità di ricordare, ovvero di creare una memoria che possa attivare hic et nunc quel “meccanismo di messa in discussione di ideologie predominanti”, quella “sollecitazione che punta a risvegliare le coscienze collettive” di cui ha parlato Bertolt Brecht.
Ma soprattutto, la critica, al pari dell’arte e del teatro, è più viva che mai, nel momento in cui si rende conto di lavorare con e su quella materia duttile e imprevedibile chiamata creatività, governata da un “sentire” che, etimologicamente, è la restituzione della cosiddetta percezione. La creatività è la caratteristica che rende l’essere umano un essere pensante, intuitivo, intelligente, ingegnoso, insostituibile e, perciò, eterno. Anche il critico è un essere creativo, un essere che crea, e anch’egli, pertanto, è il corpo e la carne di quel “sintomo del mondo” che è lo spettacolo.
“Ci si può soltanto riferire a quel qualcosa di prevedibile e insieme di indefinito che è il teatro imminente”.
(Sintomi. Materiali di Ferdinando Taviani, Mario Raimondo, Franco Perrelli, Guido Fink; interventi di Julian Beck, Eugenio Barba, Teater Laboratorium di Jerzy Grotowski,
“Biblioteca Teatrale” n. 13, 1975)
Questa raccolta nasce dal desiderio di restituire, senza pretese di esaustività, un momento di riflessione collettiva: la Tavola rotonda Biennale ‘75 - ’25: cinquant’anni di nuovo teatro, tenutasi a Ca’ Giustinian e moderata da Andrea Porcheddu, critico teatrale e dramaturg, assistente alla direzione artistica di questa Biennale Teatro.
L’incontro ha voluto interrogarsi sul presente e sul futuro del teatro, tornando a uno snodo fondamentale come l’edizione del 1975, diretta da Luca Ronconi, che aveva trasformato il Festival in un Laboratorio internazionale – questo era il titolo – ben oltre la consueta rassegna di spettacoli. A cinquant’anni di distanza, ci siamo chieste: cosa resta di quella eredità? Se, come suggerisce Porcheddu, “la storia, in epoche confuse e violente come la nostra, è una lezione costante per dare senso alle parole”, allora chi si occupa di critica oggi come deve rapportarsi alla memoria?
Tra i tanti interrogativi emersi, uno ha guidato questo nostro lavoro editoriale: è possibile rintracciare nel teatro di oggi i sintomi di un cambiamento? Per rispondere, abbiamo scelto di non ricostruire l’intera tavola rotonda, ma di offrire una selezione ragionata degli interventi ascoltati, individuando per ciascuno una domanda significativa – formulata da ogni partecipante a partire da un invito di Porcheddu – come punto di partenza per una riflessione personale e collettiva insieme (hanno collaborato anche Matilde Sofia Callegari, Rossella Cutaia, Roberta Ferraresi, Massimo Milella).
Il criterio che ha guidato la selezione è stato necessariamente eterogeneo, rispecchiando la varietà di approcci all’interno della redazione, come anche di linguaggi e sensibilità che hanno animato l’incontro. Gli interventi sono disposti secondo una sequenza tematica, riordinata da parte delle curatrici. Ciascuna ha lavorato per restituire brevi passaggi significativi, cercando di valorizzare la complessità dei discorsi in forma leggibile e coerente. Questa pubblicazione intende dunque essere una testimonianza, ma anche uno strumento. Non un archivio chiuso, ma un invito alla riflessione; in linea con la volontà della Tavola rotonda, un ponte tra il passato e il futuro.
Il punto di partenza è l’edizione del 1975, diretta da Luca Ronconi, a suo tempo rivoluzionaria (forse lo sarebbe ancora oggi). Rispetto alle cronache dell'epoca, Andrea Porcheddu sceglie di riprendere il già citato dossier Sintomi e, in particolare, le parole di Ferdinando Taviani. Quelle pagine ricordano a noi tutti un compito ancora attuale: quello di “individuare quali, fra i segni che ci cadono sott’occhio, sono i sintomi di una malattia e di una fine, e quali, invece, i sintomi di uno sviluppo a venire. E se sappiamo che le nostre speranze potrebbero farci scambiare i primi per i secondi, sappiamo anche che troppo spesso la nostra pigrizia, la nostra acritica immobilità di critici ci ha fatto vedere come rughe da vecchi quelle che erano invece le grinze di una pelle che mutava”.
È con questo spirito che si rivela l'obiettivo della Tavola rotonda: pensare al teatro che fu nel 1975, pensare a quello che è nel 2025, per spingerci ben oltre e pensare a quello che sarà nel 2075.
Eugenio Barba: Perché fate teatro?
Col suo intervento, il regista dell’Odin Teatret dà avvio a una lunga ed energica cavalcata fatta di nomi, date, eventi, incontri, iniziative dall’Europa all’America, per ripercorrere la storia del teatro a cui lui stesso ha assistito e partecipato dopo la Seconda guerra mondiale. Molti di quei nomi sono lì, a fianco a lui, e li indica uno a uno restituendo il senso più profondo e radicale dell’affermazione con cui ha iniziato e concluso il suo discorso: “che cos’è il teatro? Il teatro sono io”. Barba apre e chiude così il suo intervento, il sipario di una scena rispetto alla quale si colloca a un margine, per far tendere la denominazione dell’Io verso un tempo che s’è fatto – di nodo in nodo, di filo in filo – per singolari volontà. Infatti, tutti coloro che sono seduti a questa tavola (o chi fa le veci di chi oramai non c’è più), nella propria esistenza individuale o collettiva, hanno avuto la forza, l’impegno di agire, di fare, di allacciarsi al mondo, di gettarvi qualcosa: ossia un frammento di quell’intero che è stata la rivoluzione del teatro nel secondo Novecento.
Non fosse bastato questo quadro a far sentire il pubblico chiamato in causa, Barba, al momento delle domande, senza mezzi termini, lo incalza. Chiede a quanti sono davanti a lui di risvegliare il cuore che propulsa l’atto, lo spillo che fa convergere l’intenzione nell’azione. Ci chiede perché. “Perché fare teatro?”.
Julia Varley: Cosa ammirate dell’alba e del tramonto?
Si potrebbe rispondere che dell’alba e del tramonto si ammirano il loro essere momenti circoscritti, ciclici, colmi di sfumature – caratteristiche che si prestano anche a definire la storia delle donne nel teatro. “Ho capito che per costruire la storia del teatro delle donne dobbiamo parlare con una lingua personale”, è l’invito di Varley al cambiamento.
“Che cosa mi interessa delle donne in teatro? L'intuizione, si dice. Per me, l'intuizione è l'intelligenza degli attori: cioè di usare quella capacità che viene dal sapere incorporato, che reagisce subito e non aspetta, non pensa, non usa un sapere concettuale, una cosa dopo l'altra, ma tutto insieme”. Agire senza pensare, ovvero avere il bisogno di agire. Quando il corpo ha necessità che la ragione non comprende, ecco che interviene, lotta, causando alla mente disequilibri, così che dal conflitto possa nascere nuova materia creativa, viva, teatrale. Nell’agire teatrale il corpo si ribella alle convenzioni: “Azione significa pensare con il corpo. Il mio modo di esprimermi e pensare con il corpo è pensare con i piedi […] perché cerco di mettere sottosopra i valori a cui siamo abituati. […] Pensare con il corpo significa provocare cambiamenti, cambiare”.
Thomas Richards: È giusto pensare fuori di me o dentro di me?
Per accedere alla materia viva interiore e diventare unguarded, “indifesi”, è necessario un legame con l’altro, un movimento di estroversione che consente di toccare ed essere toccati. È su questo che Thomas Richards, erede e continuatore dell’esplorazione di Jerzy Grotowski, fonda il suo intervento, evocando un pranzo con una sua interlocutrice– e l’amore per la cucina che hanno scoperto accomunarli: un momento di riconoscimento epifanico, emblema di quella connessione autentica che apre la via al lavoro interiore. Richards chiama discernment la capacità di cogliere questi istanti nel loro sbocciare: “from that unadorned clarity, the extraordinary can flower”.
Da qui, si avviano processi creativi complessi, che si svolgono nelle profondità dell’individuo. Un approccio che unisce ricerca antropologica e performativa, come – ci fa notare – nell’indagine sull’essere umano e sulla performance di Richard Schechner, per il quale dimensione sociale e rituale sono sorelle: non identiche, ma strettamente connesse. Richards ne rintraccia le radici a partire da Nietzsche, da Artaud, dal lavoro di Grotowski, da cui apprende che il risveglio interiore è possibile solo nell’incontro. In tale prospettiva, descrive la Biennale Teatro del ‘75 nei termini di una propagazione di “small but radiant moments”, come quello condiviso con la sua commensale citata all’inizio, in cui ciascun partecipante sembrava riverberare una propria forma di luminescenza.
Richard Schechner: Cosa mangerete a cena?
Questa domanda permette di capire immediatamente il personaggio che abbiamo davanti, spontaneo e irriverente, e anticipa il contenuto della Lectio magistralis che Schechner terrà il giorno successivo, dedicata al rasa. Questo, secondo la teoria del Nātyaśāstra, è l’esperienza estetica provata dallo spettatore durante uno spettacolo: una combinazione di stati d’animo o emozioni, talvolta in contrasto, simili a quando si tocca il cibo, lo si mette in bocca, lo si mastica e si assapora – qualcosa che va oltre la semplice visione e implica un coinvolgimento emotivo.
Schechner – che è la persona più anziana chiamata a intervenire e, come gli stesso specifica scherzosamente, probabilmente anche in sala – ha voluto riflettere sull’importanza di un teatro forte, che possa contrastare la spinta reazionaria che si infiltra nel populismo contemporaneo attraverso “nuovi idoli” da lui menzionati come Meloni, Bolsonaro, Trump, Orban, al-Sisi, Xi, Putin. “Negli anni Settanta c’era un senso profondo di speranza sociale e di cambiamento. Una vitalità collettiva nei movimenti. Oggi, quei gruppi non ci sono più […] e il nostro lavoro esiste solo nelle nostre lingue e delle nostre mani. In altre parole: attraverso il gusto e il tatto. Solo così possiamo produrre un cambiamento”. Spinto dalla sua generosità e dalla volontà di dialogare con il pubblico, Schechner ci rivolge altre tre domande per lui fondamentali: “Quando avrete la mia età – se ci arriverete –, ci saranno ancora esseri umani? Ci saranno ancora animali? Esisterà ancora qualcosa che potremmo chiamare natura e non solo la sua rappresentazione?”.
The Living Theatre: How do you dare to continue to think only about yourselves as the world burns around you?
“I don't know what they [Julian Beck e Judith Malina, n.d.r.] would think of the world that we live in today […]. But I know that it would definitely enter into their world”. Satyamo Hernandez, Toby Marshall, Chris Torch, Annie Vasseur, Edward Buffalo Bromberg – tra gli storici performer di quel The Legacy of Cain, agito nelle strade veneziane per la Biennale Teatro del 1975 – portano cinque testimonianze, un “collage dell’esperienza collettiva” (Torch). Le frammentate biografie personali assumono però un’intensità comune. Non è la drammaturgia di una memoria, ma un gesto condiviso di presenza: legare quel settembre ‘75 all’oggi. Diventa un coro polifonico e anarchico per districare l’eredità di Beck e Malina dal monumento all’utopia, per custodire il fuoco: “the understanding that a body in motion can change the world”. Dalle fiamme, Hernandez salva una parola-azione: “Entanglement”. Aprirsi alla fragilità. E poi, arriva la domanda finale, che risuona come un’accusa nella Sala delle Colonne: come potete pensare a voi stessi mentre il mondo là fuori brucia?
Sandra Toffolatti: Come possiamo continuare a far vivere l’ottimismo dentro di noi?, e Giorgio Sangati: Qual è il prossimo compromesso che accetterete?
“Io non c’ero alla Biennale del ‘75, purtroppo, anche se le persone con cui ho iniziato […] erano figlie di quella generazione, di quel momento storico così rivoluzionario, incredibile, potente, pazzo in cui, se prima c’era un teatro, poi ne sono fioriti tanti – tante strade completamente diverse” (Toffolatti).
Sandra Toffolatti e Giorgio Sangati, in questa Biennale Teatro, lavorano insieme sul lascito della “ricerca infinita” di Luca Ronconi – di cui sono stati testimoni diretti e attivi – in un laboratorio appositamente dedicato, e, giustapposti, hanno condiviso anche lo spazio del loro intervento alla Tavola rotonda: riportiamo perciò in maniera unitaria i loro contributi speculari e intrecciati.
“Perché non c’eravamo?”. Si inizia con una domanda di Toffolatti, che richiama quella posta da alcune allieve del loro workshop. E si arriva dove stiamo per approdare anche noi con questa troppo rapida sintesi: a un messaggio lanciato molti anni fa, che ora – riecheggiando attraverso le innumerevoli rigenerazioni del teatro – giunge ai giovani che oggi (e forse domani) si apprestano a entrare in scena. “Se qualcosa è rimasto e si sta trasformando […] – afferma Sangati –, c’è anche uno slancio verso questa possibilità di tornare a immaginare un futuro: avere coraggio di farlo, non accontentarsi, non arrendersi”.
* I brani virgolettati provengono dalla audio-registrazione della Tavola rotonda, che si è svolta sia in italiano che in inglese, accompagnata da una traduzione simultanea, per cui la trascrizione cerca di rispettare il senso generale, più che letterale, delle parole pronunciate.
Quest’ultimo esercizio di critica vuole restituire una sintesi di alcune visioni, temi, esperienze che hanno costituito la Biennale Teatro 2025 e che ho scelto di trattenere, intrecciare e tramandare. Sarà un’occasione per volgere lo sguardo all’indietro e ripercorrere una delle molteplici linee rosse che hanno attraversato questa edizione.
Talvolta abbiamo ritrovato alcune di queste “linee rosse” concretamente in scena: come quella digitale che mozzava la testa a un personaggio in uno dei video di Symphony of Rats di The Wooster Group, oppure quella appiccicata a terra a delimitare lo spazio scenico ne I mangiatori di patate di Romeo Castellucci, dove non era dato sapere in anticipo se servisse anche a proteggere gli spettatori da possibili incursioni dei performer nella realtà. E, forse, sta proprio qui la chiave: cos’è una linea rossa in teatro? Un fil rouge che unisce edizioni distanti tra loro cinquant’anni, come la Biennale del 1975 con quella attuale e quest’ultima con quella del 2075. Una cesura tra un prima e un dopo, dove siamo noi a decidere se questa linea è oltrepassabile o meno; e, qualora lo fosse, può essere attraversata da entrambe le parti? Chi decide le norme per varcare la linea rossa? Alessio Maria Romano, nello spettacolo NOI, ha comunicato le sue regole prima di entrare nello spazio. E se servissero dei requisiti: cosa accade a chi è escluso? E a chi viene lasciato fuori, come è successo a me che ho deciso di accogliere l’invito di un attore a uscire durante Orge per George, mise en espace del testo di Athos Mion diretta da Arturo Cirillo?
Una linea rossa può essere anche una cicatrice, il segno lasciato da una ferita come quella che la fotografa interpretata da Ursina Lardi, in Die Seherin, si autoinfligge sulla gamba con un bisturi mentre filma l’azione con il cellulare… ma poi perché noi stiamo a guardare?
Con il mutare del teatro – e delle situazioni socio-politiche nelle quali è inserito – anche la critica, per forza di cose, dovrebbe modificarsi, cercare nuovi linguaggi, rinnovare le ragioni del suo esistere. Non dimenticare di essere umani può essere un inizio; essere gentili – come suggeriscono Evangelia e Mary Rantou durante il loro talk – potrebbe essere una postura da mantenere; l’amore della Republik der Liebe proposta al Wiener Festwochen (il cui motto è V is for loVe) Milo Rau, regista di Die Seherin, può essere un atto di resistenza. Come si inserisce, dunque, il corpo della critica in questa chiamata all’Arte? Deve farlo?
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Tra i fili rossi di cui si parlava qui sopra, uno per me importante è quello proposto dalla direzione artistica che ha voluto creare un ponte tra la Biennale Teatro di quest’anno – Theatre Is Body / Body Is Poetry – e l’edizione del Laboratorio Internazionale del 1975. Significativa è stata la Tavola rotonda intitolata Biennale ’75 - ’25, condotta da Andrea Porcheddu, che ci ha invitato a riflettere anche sul teatro che verrà, pensando a un’ipotetica Biennale del 2075. Tra i protagonisti che hanno preso la parola, anche Julia Varley, figura storica dell’Odin Teatret, che abbiamo visto in scena con lo spettacolo Le nuvole di Amleto.
Ed è proprio a partire dal suo intervento che vorrei provare a tracciare un filo capace di attraversare alcune questioni fondamentali assumendo una prospettiva di genere, non come gesto ideologico, ma perché, in questa edizione, il riconoscimento alle “Leonesse d'Oro e d’Argento” – rispettivamente a Elizabeth LaCompte e Ursina Lardi – appare come una chiave di volta.
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“Ho capito che per costruire una storia del teatro delle donne dobbiamo parlare con una lingua personale”, ha dichiarato Varley nel suo contributo. “Che cosa mi interessa delle donne in teatro? L'intuizione. Per me l'intuizione è l'intelligenza dei corpi, saper usare quella capacità che viene dal sapere incorporato, che reagisce subito e non aspetta, non pensa, non usa un sapere concettuale; una cosa dopo l'altra, ma tutto insieme”. “Nel teatro il conflitto è essenziale”, riflette: “se non abbiamo conflitto, non abbiamo spettacolo, non abbiamo teatro, ma il conflitto proposto dalle donne che fanno teatro è creativo, non è una guerra – è l’immaginazione al potere”.
In linea con questa prospettiva sembrerebbe Elizabeth LeCompte. Parlando di Symphony of Rats, lo spettacolo del Wooster Group che ha diretto con Kate Valk, riallestendolo a distanza di quarant’anni dal debutto, ha dichiarato: “ho scelto di portare in scena l’opera di Richard Foreman in maniera totalmente opposta rispetto all’originale: essendo io un’artista visiva non potevo lavorare con parole che per me erano troppo astratte, sentivo il bisogno di concretezza, per questa ragione abbiamo reso in versi parte del testo: del resto, la parola sinfonia c’era già nel titolo ”. Una simile spinta a sovvertire i linguaggi dominanti la ritroviamo inGiovanna D’ArPo, spettacolo di Gardi Hutter che – oltre a essere controcorrente, già solo per essere una clown – ci propone una lavandaia trasognata che, oltre a immaginare grandi azioni eroiche, si masturba con il filo sul quale stende i panni: un gesto che oggi non sembra dissacrante ma che, nella Svizzera dell’inizio degli anni Ottanta (periodo in cui prende vita per la prima volta il personaggio) era probabilmente considerato trasgressivo, tenendo conto, ad esempio, che le donne ottennero il diritto di voto solo qualche anno prima, nel 1971.
Sulla scia di questo lascito, interviene Ursina Lardi che – quasi in chiusura al Festival, nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Leone d’Argento 2025 – invita ora più che mai a “unirci, stringerci in solidarietà e opporci ai tentativi di metterci gli uni contro gli altri nelle imminenti lotte per la distribuzione delle risorse. Sì, dobbiamo confrontarci, sul palcoscenico e fuori, con tutte le questioni urgenti che la nostra contemporaneità ci impone, ma non dobbiamo ridurci a un semplice riflesso delle discussioni o decisioni politiche: questo potere su di noi non dobbiamo concederlo – per questo torniamo all'arte quanto prima”.
Qui è disponibile la trascrizione integrale del discorso di Ursina Lardi.
Form is tricky. Narrative is a trick. La forma è ingannevole. La narrazione è un inganno. Così si apre The (Un)Double, l’opera (meta)teatrale di Anthony Nikolchev, che ha avuto la sua prima assoluta il 10 giugno alle Tese dei Soppalchi. Un’operazione che dichiara subito il suo intento: “The following is an attempt at a theatrical lecture”, recita uno degli attori, come un retore che introduce il proprio discorso.
Tutto si articola in una triade, secondo il modello narrativo consolidato, che da Aristotele sopravvive fino al modernismo tardo-ottocentesco. Tre figure (il Narratore, l’Eroe, il Sosia), tre tempi (primo, secondo, e terzo atto – inizio, peripezie, conclusione), tre spazi (un seggio alto, da arbitro; un box bianco, centrale, in cui si aprono delle fenditure; una scrivania). A partire da questa articolazione, Nikolchev costruisce la sua opera entro una cornice letteraria tradizionale – Il sosia di Dostoevskij – per poi smantellarla, manipolando il contenuto previsto da questa forma, e sovvertendo le aspettative di chi osserva.
A immagine della scansione dell’opera, propongo un tentativo di restituzione teatrale in tre parti.
I. “I’m a goddamn monster of willpower!”
Il nostro eroe, Jakov Petrovič Goljadkin, è, come direbbe Musil, un uomo senza qualità. Consigliere generale nella Russia dell’Ottocento, si invaghisce della figlia del suo superiore, e cerca di impressionarla durante una festa di palazzo. Il suo tentativo è disastroso: dopo essere stato messo alla berlina di fronte alla classe dirigente lì riunita, viene cacciato fuori dalla porta, e incontra il Sosia, un uomo esattamente come lui, ma esattamente contrario. Porta il suo nome, condivide il suo stesso passato, ma ha successo laddove l’Eroe, invece, finisce per umiliarsi. Il “Goljadkin minore” (così lo chiama Dostoevskij) di Lukasz Przytarski, il performer che lo interpreta, si arrampica sulle spalle del suo doppio, intreccia le sue membra con quelle del protagonista con fare opprimente, ossessivo, in una coreografia in cui l’Uno è Sisifo e l’Altro diventa il masso da trasportare. Il Narratore, dal suo seggio sopraelevato, detta i movimenti che raccontano questo primo atto intitolato The Hero, rimanendo al di fuori del box bianco in cui avviene l’azione. L’Eroe si illude di avere il controllo sulla propria narrativa: crede di potersi liberare del Sosia e di riuscire a dare di sé un’immagine galvanizzata, ricostituendo la propria identità di fronte agli occhi della giudicante società borghese. Insomma, egli è “un dannato portento di volontà!”.
II. “The fuck is a double?”
Secondo atto: The illness, la malattia. Il Sosia passa ripetutamente al di fuori del box dell’azione e si trasforma in un guaritore olistico. Si avvicina al pubblico seduto nelle prime file e ai lati del palco, agitando una bacchetta taumaturgica e promettendo rimedi pseudo-scientifici alle malattie fisiche e spirituali che affliggono la persona moderna. L’Eroe inizia un’interrogazione assillante: che cos’è un doppio? Questo “Goljadkin minore” non sarà, forse, la proiezione della psiche divisa del “Goljadkin maggiore”, di ciò che egli vorrebbe essere, un “dannato portento di volontà”? Sugli schermi che circondano il luogo dell’azione compaiono dei glitch; alcuni palloncini bianchi, gonfiati alternativamente dalle tre figure nel corso dell’opera, fluttuano per il palco; dalle fenditure del box, che sagomano la visuale del pubblico, l’Eroe e il Sosia entrano ed escono; i due Goljadkin si svestono, scambiandosi poi i vestiti o cercando di indossare gli stessi indumenti contemporaneamente. Queste interferenze estetiche problematizzano l’unità narrativa e visiva, traducendo in segni tangibili la frattura interiore del protagonista (e, riflessivamente, di ogni individuo in platea). Come verrà rivelato da Dostoevskij, Goljadkin, l’everyday man, soffre di una forma di malattia mentale che lo porterà a essere internato in un ospedale psichiatrico. Non c’è nessun doppio che lo antagonizza: tutto si svolge dentro di lui.
III. “You can see the box you’re in”
Il box bianco viene dismembrato dall’Eroe e dal Sosia, e finalmente diventa visibile la riflessione postmoderna portata avanti da Anthony Nikolchev: una volta presa coscienza della finzionalità del “contenitore” narrativo, che viene costruito arbitrariamente dall’Eroe per poter dare senso alle proprie azioni, allora cadono i presupposti della narrazione stessa. L’assurdismo che caratterizza il pensiero postmoderno fa sì che l’azione teatrale mimetica – la rappresentazione della realtà secondo un procedimento imitativo – diventi orazione teatrale (“theatrical lecture”), ovvero riflessione sulla possibilità e sul senso della narrazione stessa: non a caso, il terzo atto è intitolato The Truth. Gli schermi che circondano il palco trasmettono l’immagine sgranata del regista che parla con Willem Dafoe, il direttore di questa Biennale Teatro. I due sono impegnati in una conversazione attorno alla tradizione filosofica che ragiona sul rapporto forma-contenuto, a partire dal pensiero platonico. Nikolchev e Chris Polick, che interpreta il Narratore, si fermano di fronte alla scrivania e brechtianamente discutono della scena appena interpretata, affermando di avere avuto a riguardo idee contrastanti durante le prove. La narrazione è definitivamente decostruita.
Se il pubblico esce perplesso dalle Tese dei Soppalchi, Anthony Nikolchev ha raggiunto il suo intento. Egli non vuole essere un trickster, un prestigiatore, un narratore di bugie. Intende portare avanti invece una riflessione tricky, complicata, sulla forma della narrazione, e sulla sua stessa possibilità nella contemporaneità. In un’edizione del Festival costellata da opere di autofiction, di racconti che risignificano la storia personale dei propri creatori, The (Un)Double propone al pubblico un controcampo: la crisi strutturale del racconto e del suo narratore. Quando raccontare il tradizionale Viaggio dell’Eroe si rivela impraticabile – la barca distrutta, il mare un’illusione, il protagonista de-mitizzato – che cosa resta della rappresentazione artistica?
*Il testo è un intarsio che giustappone al racconto di Call Me Paris (in tondo), alcuni approfondimenti (in corsivo, giustificati a destra) e tre citazioni estratte dallo spettacolo stesso (in grassetto, centrate), che strutturano il discorso.
Stati Uniti, 2004. Uno spettro si aggira per la televisione, i magazine e le radio: è lo spettro di Paris Hilton. Frivola, festaiola, icona di stile; la giovane ereditiera diviene presto la maschera di sé stessa, personaggio le cui imitazioni inondano ogni prodotto mediatico americano di quegli anni.
Venezia, 2025. Racconto al mio compagno di aver visto uno spettacolo teatrale su Paris Hilton. Gli chiedo se la conosce. Mi risponde di sì, alludendo all’attrice bionda nel film High School Musical.
Call me Paris della regista tedesca Yana Eva Thönnes ha debuttato alla Biennale Teatro 2025 e intreccia la storia di Julie, giovane adolescente vittima di stupro e diffusione di materiale intimo, con quelle di sua madre e dell’ereditiera Paris Hilton, alla quale la protagonista assomiglia.
Chi è Paris Hilton? È realmente esistita? Cosa ha a che fare la sua immagine con quella di Barbie, Marilyn Monroe o delle attrici bionde nel porno mainstream? E cosa ha a che fare la sua esistenza con la mia vita, oltre che con quella di una giovane adolescente sorpresa nel trovarsi addosso una moltitudine di sguardi d’ammirazione per la sua somiglianza alla it-girl?
2004. Uno spettro si aggira per internet: è lo spettro dello stupro. Dopo aver colonizzato strade, case e uffici, comprende che i luoghi materiali non lo sfamano più e decide di insinuarsi in rete, innervandosi nelle immagini che vi scorrono. Le fotocamere dei cellulari divengono così fucili da caccia, e il web un club per bracconieri dove appendere alla parete i propri trofei.
“I got you!”
Julie non sa chi sia Paris Hilton, ma le basta aprire internet e osservare qualche foto per capirlo. Non solo; guardando l’ereditiera, riesce per la prima volta a vedersi attraverso gli occhi dei suoi compagni: sfrenata, sensuale, e al contempo ingenua, docile. Julie sente pulsare il loro desiderio dentro il proprio organismo, attraverso il corpo di Paris e tutto ciò che evoca.
In una delle celebri fotografie di David LaChapelle di questi anni, Hilton è ritratta distesa a gambe aperte sul bagnasciuga, a seno nudo, cosparsa di soldi e trucchi. Alle sue spalle, dei corpi maschili le si avvicinano pericolosamente, come avvoltoi che planano su un pezzo di carne abbandonato. Ma il pezzo di carne è vivo e ride: sembra dolcemente inesperto, voglioso di darsi in pasto a degli uomini incuranti, fiducioso del loro potere fallico.
Romanticizzare la disuguaglianza. Erotizzare lo stupro.
Se ci si è eccitate guardando Paris Hilton, se ci si è masturbate su fantasie predatorie maschili, se si è scelto di incarnare lo stesso personaggio, di stare al gioco sentendo che essere viste a volte ti permette di esistere, si è ancora vittime, quando poi ti stuprano?
Vige spesso, nella reazione collettiva a un caso di violenza, la tendenza a santificare la vittima al fine di difenderla. Provando la sua purezza, ella potrà forse guadagnarsi la compassione dell’opinione pubblica, che decreterà ad alta voce il suo sdegno verso un atto che certamente una ragazza per bene, senza libido né peccato originale, non si meritava. Tuttavia, se dalla gogna mediatica emergerà per la vittima un profilo ambiguo, poiché fautrice di comportamenti dai quali traspare un essere umano complesso, desiderante, magari a rischio di assecondare delle forme subdole di violenza, la società si guarda bene dal tutelarla, e in quel caso il verdetto sarà:
se l’era cercata.
É davvero possibile dare forma al proprio desiderio sessuale a prescindere dagli squilibri di potere che permeano la nostra società? Come posso considerarmi femminista, se mi eccita l’idea che un uomo prenda possesso del mio corpo? Un’immagine trita e ritrita, vista in tutti i media fisici e digitali, una sensazione accolta e non discussa dalle persone che da sempre abitano il mio quotidiano; il fantasma dello stupro, appunto.
“She seems to enjoy it, but you don’t believe it, because you know even your mother knows how to fake it”.
La ripetizione acritica forgia istituzioni e plasma immaginari. Nella sua immensa solitudine – come testimonia, nello spettacolo, la bambola a grandezza umana, seduta sul letto di spalle, di cui vediamo solo i lunghi capelli biondi che scendono sulla schiena – Julie si costituisce in un legame di ambigua sorellanza con Paris Hilton e sua madre.
Nessuna delle tre riesce a sbarazzarsi del sistema di potere che le opprime. Finiscono anzi, per assomigliarsi sempre di più, scambiandosi ruoli e vestiti, come se stessero vivendo versioni difformi della stessa vita. Nel loop irrefrenabile di immagini violente e scintillanti, cercano un modo per autodeterminarsi, trasformando dall’interno le pose, i gesti, le parole, e la loro memoria stessa, mettendola in condivisione e rendendola collettiva.
“Do you copy?”
Una vittima può essere parte attiva del processo di violenza e restare parte lesa? Quando un’adolescente non ha gli strumenti culturali per difendersi, c’è da domandarsi se gli adulti intorno a lei ne siano provvisti, se la società ha interesse a fornirli, o non sia più semplice scaricare una responsabilità collettiva sulla singolarità.
Venezia, 2025. Lo spettacolo è finito, la regista Yana Eva Thönnes sale sul palco per gli applausi. Si potrebbe dire che anche lei assomigli a Paris Hilton. Assomiglia alle tre attrici presenti, e alla bambola sul letto. La copia originale si è persa, i rimandi si moltiplicano a vista d’occhio, tra volti somiglianti, corpi performati ed esperienze di violenza reiterate. La distanza tra palco e platea si assottiglia vertiginosamente.
Le donne in scena ci guardano. Assomigliano agli idoli con i quali sono cresciuta, alle star sui magazine che ancora oggi si possono trovare in edicola. Assomigliano a mia madre a quattordici anni. Assomigliano alla mia amica quando è stata stuprata. Si accendono le luci sulla platea, ci alziamo, e, sbirciandoci, ci accorgiamo che ci stiamo tutte assomigliando.
Un nuovo spettro si aggira per la sala: è lo spettro della rabbia.