fbpx Biennale Teatro 2022 | Giorno 5: Teatro a luci rosse
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop di critica teatrale

di Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi
Teatro a luci rosse

Ormai sembra che Venezia non sia mai esistita senza il suo Carnevale, tanto è entrato a far parte della cultura della città lagunare. Il Carnevale squarcia la nebbia è un omaggio ai novant’anni di Maurizio Scaparro, che ha contribuito a trasformare in simbolo dell’avvenimento teatrale la festa che per eccellenza corre nelle calli e occupa le piazze, quest’anno abitate dalle performance site-specific di Aine E. Nakamura e Antoine Neufmars. Brief Interviews with Hideous Men - 22 Types of Loneliness di Yana Ross condivide invece con il Carnevale il ribaltamento, i toni ambigui ed equivoci, analizzati però con lucida freddezza: sesso a luci rosse, ma dietro le fredde vetrine di un laboratorio.

Chiara Carbone

Gli anni meravigliosi. Viene da definirlo così, quel triennio dal 1980 al 1982 in cui il regista Maurizio Scaparro diresse la Biennale Teatro.
E fa bene l’istituzione veneziana a celebrare, oggi, quelle storiche edizioni che segnarono, di fatto, la riscoperta e l’affermazione del Carnevale come festa popolare, come momento di incontro tra genti e culture diverse. Scaparro, con felice intuizione, scelse di mettere in cortocircuito le tre parole magiche, presenti nell’immaginario collettivo: Carnevale, Teatro e Venezia. Una novità per quell'epoca.
Lo ricorda lo storico Carmelo Alberti nelle note che accompagnano la bella esposizione allestita nel Portego di Ca’ Giustinian, sede della Biennale, e aprono il libro-catalogo curato dall’Archivio Storico delle Arti Contemporanee.
Assieme ad articoli, manifesti e locandine, sono esposte foto e video d’archivio, spesso in bianco e nero o virate con colori che segnano il tempo passato. E sono fotografie bellissime, che testimoniano la straordinaria affluenza di pubblico – Piazza San Marco, i campi, le calli pienissime – e l’originalità della proposta artistica. Scaparro, si sa, è artista dalla cifra poetica, raffinato sognatore di mondi e tessitore instancabile di legami geografici e umani all’insegna della fantasia. Ma non solo: con la sua direzione veneziana, seppe dare un contributo all’affrancamento del Paese dalle stagioni violente del terrorismo e della strategia della tensione. Contemporaneamente a quanto faceva Renato Nicolini con il suo “effimero” meraviglioso urbano a Roma; a quanto accadeva al Festival di Santarcangelo che gioiva della frenesia dello spettacolo in Piazza, Scaparro e la Biennale inventarono in breve ed efficacemente l’occasione per riconquistare il piacere di stare insieme per strada, senza pericolo, liberamente e apertamente.
Il primo “Carnevale del Teatro” (dal 10 al 19 febbraio 1980) si consumò davvero all’aperto, con spettacoli, giocolerie, marionette, burattini, laboratori e momenti di studio e riflessione. Giuliano Scabia con l'itinerante Giro del diavolo e del suo angelo, Marcel Marceau alla Fenice (con una folla incredibile in attesa per entrare), la spettacolare “ragnatela” inventata da Donato Sartori che “legò” assieme le persone festanti in a San Marco, i primi workshop di trucco e travestimento collettivi; e poi Lindsay Kemp, Dario Fo e Franca Rame, e la spettacolare Tauromachia dei catalani Els Comediants furono momenti indimenticabili. Come lo fu il miracoloso Teatro del Mondo, ideato da Aldo Rossi: una nave teatro, un contenitore di spettacoli che, trainato dal rimorchiatore Nuevito, prese poi il mare per arrivare a Dubrovnik con un carico di spettatori, critici, artisti (come Ezio Maria Caserta, Claudio Remondi, Luca De Fusco, Fiorenzo Fiorentini).
Il 1981 fu il “Carnevale della Ragione”, con un omaggio al “Viaggio dei comici italiani del '700”, e con ospiti internazionali come Juan Antonio Hormigón o l'attesa Geraldine Chaplin (divertentissime le foto che raccontano l’arrivo di un elefante a Venezia per lo spettacolo Le cirque commence à cheval). In cartellone anche teatranti del calibro di Giancarlo Cobelli, alle prese con Gozzi, Paolo Poli che affrontava il Paradosso di Denis Diderot o Edoardo Fadini con il suo Cabaret Voltaire.
Nel 1982, poi, Scaparro riuscì finalmente a collegare Venezia a un’altra città del suo cuore: Napoli. La laguna fu invasa da Pulcinella festanti, ma arrivano anche Peppe Barra, Leopoldo Mastelloni, Nello Mascia e Bruno Cirino, Mario Martone e Falso Movimento, Annibale Ruccello e Mimmo Jodice, Luca de Filippo e Eugenio Bennato (poi ci sarà modo di ricambiare: anche Venezia invaderà artisticamente e pacificamente Napoli).
«I Carnevali della Biennale inventati da Maurizio Scaparro – scrive il presidente Roberto Cicutto – dimostrano la sua straordinaria capacità di trasformare una intuizione in un progetto che valica ogni confine (…).  Venezia con lui è diventata la rampa di lancio per rivisitare e reinventare tradizioni che normalmente si riducono a mera celebrazione esteriore». Ecco, un progetto che si fece realtà, che cambiò il luogo e le persone, festeggiando la vita e l’arte. Nel frattempo il mondo è cambiato, il teatro è cambiato. E finalmente si abbattono steccati e incasellamenti.

Nel cuore di Venezia hanno luogo due eventi aperti a tutti, senza biglietto, senza un palcoscenico a definire spazi limite tra platea e artisti. Da domenica 26 giugno a domenica 3 luglio, alle 18 in punto, in Campo Santo Stefano e in Campo Sant’Agnese si trovano le performance site-specific della Biennale Teatro 2022: Under an Unnamed Flower di Aine E. Nakamura e Odorama di Antoine Neufmars, opere ideate per un pubblico di passanti.

La definizione di teatro del compositore statunitense John Cage potrebbe introdurre alla perfezione Odorama: «Per me il teatro è semplicemente qualcosa che vincola la vista e l’udito, i due sensi “pubblici”, mentre il gusto, il tatto e l'olfatto si rifanno piuttosto a situazioni intime, personali, “non pubbliche”». Antoine Neufmars crea un’enciclopedia degli odori dove i passanti, in Campo Sant’Agnese, sono chiamati ad attivare i ricordi che la memoria spesso sotterra e che i profumi invece possono risvegliare. La performance si concentra quindi sulla dimensione segreta e non esplicita dei sensi, e lo fa non in un luogo chiuso che può sembrare protetto (come la sala teatrale), ma in una piazza, un campo veneziano, dove le persone passano e, se interessate, si fermano. Lo spettatore improvvisato è seduto per terra, sul pozzo al centro del campo o sta in piedi e, incuriosito, ascolta e segue la narrazione. Alcuni “prescelti” da Neufmars partecipano direttamente alla performance e sono invitati a sedersi di fronte a un tavolino allestito con 12 boccette di profumo e a condividere, con lui e con i presenti, i propri ricordi legati a una fragranza scelto da loro stessi. La spettacolarizzazione di un fatto privato diventa per il performer l’input per parlare d’altro: dal primo amore per l’attrice di un vecchio film all’incedere maestoso di Lady Macbeth, fino al ricordo di un paesaggio al chiaro di luna intrappolato in una fotografia. La commistione di ricordi – di Antoine Neufmars e del pubblico – crea uno spettacolo con una trama sempre diversa. (F.R.)

A pochi passi dal ponte dell’Accademia, accanto al pietrificato Niccolò Tommaseo, detto popolarmente dai veneziani “el Cagalibri”, Campo Santo Stefano ospita la performance Under an Unnamed Flower di Aine E. Nakamura. Il lato corto di Palazzo Loredan, al cui interno alloggia l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, offre una splendida scenografia urbana: un maestoso fronte in pietra bianca con doppio ordine di semicolonne. Lo spazio dell’azione scenica è delimitato dai cavi neri dell’amplificazione. Nakamura fa il suo ingresso da lontano, attraversa il campo in diagonale, indossa un kimono rosa, conduce una frammentata narrazione fatta di gesti, movimenti, lamenti e strida. Venezia e il Giappone, scrive l’ideatrice nelle note di regia, sono fortemente legati dall’abilità nel confezionare tessuti. Pensiamo alla storica Via della Seta, ai viaggi di Marco Polo, ai proficui rapporti con l’Oriente della Serenissima: così Nakamura, sui toni di una Madama Butterfly che geme invece di cantare, stende stoffe sulle pietre della piazza, le percuote, ci si sdraia, facendo emergere reminiscenze della propria famiglia di importanti tessitori, prima del fascismo e dello scoppio della guerra in Giappone. All’ombra del linguista intento in eterno nell’azione culturalmente triviale, donne e uomini entrano ed escono ignari dal portone di un palazzo privato con sacchetti della spesa; qualche curioso turista con valigie al seguito si ferma. Tutti sono sorpresi di essere catapultati in una piazza che si fa spettacolo. La performance si appropria di spazi urbani: è la vitalità di un teatro che si sparge in mezzo alla comunità, che si fa città. (A.M.)

La capacità dell’uomo di dissociarsi è straordinaria. Spazzar via la violenza subita, ingurgitare brandelli di sé, lacerandosi in poltiglia, berne. La regista lituana Yana Ross con Brief Interviews with Hideous Men – 22 Types of Loneliness, tratto dal libro di David Foster Wallace, si serve della drammaturgia, e adatta sia per il teatro che per il grande schermo, temi scomodi. L’autrice attende lo spettatore nel foyer. Lo invita a proseguire, a non aver paura, ad attraversare la scena. Lo guida in quella che sarà una costruzione distopica e surreale, costellata di colori, in uno spazio suddiviso in più sale. Non c’è un posto assegnato. Ognuno è libero di scegliere la prospettiva da cui dar vita a questa visione. I personaggi sono a terra. Sgomenti, provati forse da una notte lussuriosa appena trascorsa. Lo sguardo intercetta subito una visione: sesso dal vivo, interpretato da due attori porno, Keaty Pears e Conny Dachs. La semplicità dell’immagine costituisce il fondamentale ostacolo alla reale comprensione di ciò che andrà in scena. La regista, infatti, con questa scena dichiara di voler preparare il pubblico, come volesse prendersene cura. L’idea di consumare una serata alcolica rimanda a quella di consumare un rapporto, anche se non si è consenzienti. Se le immagini, nelle descrizioni di Wallace, sono essenzialmente superfici prive di rimandi e perciò inutili all’atto comunicativo, Ross se ne serve, costruendo tematiche corrosive con cui esaminare la società contemporanea.
Il reale è spesso piegato a schematizzazioni. L’autrice scandaglia il bisogno che sente dentro, azzera e guarda oltre, accompagnando lo spettatore più incredulo. L’uomo bianco, “servitore dei bisogni umani, sente senza sentire”, persegue un ideale chimerico che non lo rende capace di uscire da sé stesso, ma intrappola altre vite: intrappola le donne, le consuma, usandole.
Leggere Brevi interviste con uomini schifosi non è solo difficile, ma è doloroso, così come dolorosi sono gli stupri del quale lo spettacolo si fa eco. Il romanzo è costituito da ventiquattro racconti, anche se Yara Ross ha scelto di restituirne solo una parte, portando in scena l’impellenza dei temi emersi nei workshop con i diversi attori: mascolinità, sessualità, perversioni, solitudine, vecchiaia. Il più evidente è il machismo: questi uomini che pretendono attenzioni, chiedono spazi per sé e manifestano la forte incapacità di relazionarsi gli uni con gli altri. Tale inettitudine è ripresa già nel sottotitolo: “22 tipi di solitudine”, un omaggio ulteriore a Wallace e al senso di smarrimento che attanaglia le vite di ognuno di noi, ma che, con la penna, l'autore è riuscito a narrare.
Si spinge il pubblico a un risveglio. Si pretende di attribuire una giusta definizione a ciò che accade, a ciò che si subisce, senza l’ausilio di tante parole. La regista fa dell’architettura di scena uno strumento con cui confermare e fermare la condizione umana. Il set diviene vetrina per chi guarda, ma anche per chi restituisce l’opera. Un racconto di verità più nascoste, che lascia disillusi. La scelta di raccontare la criticità con cui oggigiorno i mass media schivano alcuni temi è resa al pubblico con caricature vivaci ed argute di giornalisti stereotipati.

Il presente si riflette sul palco, ma paralizza e lo fa con mezzi grotteschi, come i vestiti di scena, disegnati dalla mano della costumista Zane Pihlstrom. Le tenui sfumature degli abiti evocano uno stato d'animo complementare rispetto alla violenza della narrazione. È un defilé al quale i nostri occhi non vorranno sottrarsi che incarna un’esperienza dolorosa che scava in profondità, ma nelle vesti di cowboy rudi, bianchi, armati di pistole giocattolo, inseparabili dal proprio cavallo, manifesti nella loro apparente virilità. Mentre la musica scandisce atti e scene, facendo questa fossa di perversione. anche qua ndo meno ce lo si aspetta da direttore d’orchestra.

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