fbpx Biennale Teatro 2023 | Giorno 4: Il verde è un inganno
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop di critica teatrale

di Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi
Giorno 4: Il verde è un inganno

Nessuno nel regno di Oz osa dire che la Emerald City potrebbe non essere né verde né smeraldo. Eppure è evidente che si tratta di una visione condizionata dall’uso obbligatorio di occhiali, impossibili da togliere.
È comunque improbabile che ogni sguardo sia concorde: il verde è tra le tinte più difficili da definire, esistono addirittura occhi che non non riescono a captarlo (deuteranopia), dal momento che non è un colore ma la combinazione dei primari blu e giallo. Il verde è un’idea, un nome dato a una percezione che si presuppone uguale per tutti. Il verde è un inganno come la Città di Smeraldo.
Ogni mondo è, in fondo, frutto di un’illusione, anche ciò che definiamo “realtà”: essa è solo la rappresentazione di una narrazione collettiva con cui si conferisce senso e significato al circostante. Se mettersi d’accordo su norme e valori è necessario alla comunità, a considerare le idee condivise – ma non per questo condivisibili – come immutabili e vere in assoluto, si rischia un’accettazione passiva del già noto ed esclusiva dell’ignoto. Stando comodi in un mondo di simili in cui ogni cosa è nominata, nominabile e afferrabile, si finisce per autorecludersi in bolle di consenso: ogni comunità si fa monade a sé stante e fortezza monocolore. Insomma, come nel caso del verde, ci si lascia assuefare da un’idea predeterminata, il cui esito è un occhio atrofizzato e una visione omologata. È la dinamica stagnante che affligge il nostro presente e così – in quanto specchio alterato del reale – anche il teatro.
Una Biennale Teatro che inneggia al cambiamento tinteggiandosi di un solo colore sembra allora un paradosso. Ma la cromia è mutata ogni anno fino a farsi Emerald, cioè talmente fittizia da svelare il trucco e rompere l’illusione. E menomale: il meraviglioso e terribile inganno non è opera di un mago straordinario, ma soltanto di un comune mortale. La creazione trasformativa è allora in mano a un essere umano qualunque: può finalmente smettere di attendere invano il “Grande e Potente” Godot che dovrebbe dargli cuore, mente e coraggio, salvandolo dalle sabbie mobili che circondano – e isolano – il regno di Oz. Il Teatro di Smeraldo diventa così il luogo dell’eterna crisi da cui far sorgere sempre nuovi immaginari, uno spazio protetto in cui riconoscersi ma anche disconoscersi; in cui potersi dire che il verde lo si vede rosso e che sì, verde sarà pure la speranza e la natura, ma là fuori è anche il petrolio, i fumi chimici, il detersivo per i piatti…

Ilaria Cecchinato

L’altro giorno ho visto un meme. Parlava di come, nel cartone della Disney, Aladdin avrebbe potuto usare i desideri a sua disposizione per abbattere la monarchia che gli impediva di sposare Jasmine o per risolvere il problema della povertà diffusa che lo obbligava a rubare. Invece, ha chiesto di diventare un finto principe e aderire a quel sistema. Come si pensa diremmo noi cosiddetti “giovani”, fa ridere ma anche riflettere.
Si sente spesso parlare del disinteresse dei giovani: per la politica, per la morale, per il mondo. Al contrario, penso che abbiamo una percezione molto acuta delle mille storture del presente e finisce che ci sentiamo piccolissimi e schiacciati al punto dell’immobilismo. Da questa posizione claustrofobica guardiamo al mondo “dei grandi” come a una fortezza inespugnabile che, talvolta rinunciando a un senso, si accontenta di funzionare senza intoppi. L’aver sviluppato un umorismo così assurdo, credo sia in un certo senso una reazione difensiva generazionale.
Eppure, in questi giorni di workshop, abbiamo scoperto che le istituzioni degli adulti non sono esenti dai dubbi. Spesso nel teatro ci si interroga su cosa si sta facendo, quale sia la direzione, il senso. Forse, l'autoriflessione è parte necessaria di tutte quelle discipline che non sono direttamente inscrivibili nei processi produttivi e quindi catalogabili come utili senza sforzi. Diciamocelo, in un certo senso l’arte è inutile. Ma è proprio questa inutilità, questo scarto rispetto al sistema, che permette di guardare allo stato di cose con un po' di respiro. Concede quel tanto di libertà utile a interrogarsi sui significati, sul valore profondo dell'agire. È la possibilità di uno spazio dove sperimentare con i mondi, creare suggestioni, guardare all’azione necessaria, scomporla, stravolgerla, chiedersi se in fondo necessaria lo è davvero.
Serve stare attenti, con il teatro. L’arte della finzione non può essere solo finzione. O peggio, diventare arte dello spettacolo, inteso alla Guy Debord come creazione di un immaginario volto a favorire il consumo attraverso una narrazione collettiva a cui il consumatore sente l’esigenza di adeguarsi. In soldoni, non possiamo consumare teatro solo perché significa vivere un’esperienza che restituisce di noi l’immagine di una classe intellettuale; andare a teatro alla ricerca di un momento di svago per poi ritornare placidi alle nostre vite, indenni.
Lyman Frank Baum, scrittore della saga di Oz a cui il tema di questa Biennale Teatro si ispira, è stato accusato di servirsi e addirittura di incentivare il consumismo attraverso la sua arte. Secondo questo coro, l’opera è stata trasformata dal suo autore in un bene di consumo, che ha cercato di far fruttare al massimo proponendone vari musical e film, creando un merchandising a tema e tornando a scrivere un episodio ogni volta che si trovava a corto di quattrini. In realtà, il rapporto di Baum con la sua opera è decisamente peculiare. Per certi versi, la storia di Oz è la storia dei suoi fan. È stato l’entusiasmo del pubblico a incentivare Baum nella prosecuzione della saga, che progredisce anche attraverso gli input che i lettori mandavano per posta all’autore. In un certo senso, Oz è un’impresa collettiva, la creazione di una narrazione alternativa a cui aggrapparsi. Da questo punto di vista, i fedelissimi di Baum non si rivolgono a Oz perché irretiti da una sottile operazione di marketing. Piuttosto, nel regno magico riuscivano a rintracciare un insieme di valori, vedevano appagati dei bisogni che non potevano essere nutrirti nella realtà. Oz offre delle visioni, descrive un’alterità utopica e così ne incoraggia la possibilità.
Le avventure del primo libro si chiudono con la famosissima frase della protagonista “Home sweet home”; in un episodio successivo al Mago di Oz non è più il Kansas a essere casa, bensì una riformata Emerald City in cui Dorothy e i suoi zii si trasferiscono grazie all’aiuto di una strega buona. La Città si è finalmente liberata dal dominio di Oz e la magia non segue più la logica del mercato ma quella del dono. La progettualità si fa condivisa, pensata e realizzata da una comunità fondata sulla partecipazione di tutti coloro che abitano la Città di Smeraldo. L’utopia così diventa reale, a beneficio di tutti.
Non voglio teorizzare cosa debba essere il teatro, sarebbe presuntuoso o troppo semplice, e quindi poco utile. Mi limiterò a chiudere con l’augurio che Emerald possa essere, almeno in parte, se non progetto puntuale, almeno sogno, allucinazione, proiezione ologrammatica di futuri insperati. Che i nostri desideri non siano vani o vanitosi. Don’t be an Aladdin, be a Dorothy!

Per i greci era la skenè: ciò che confinava l’occhio, per impedirgli di vagare oltre la narrazione, vincolando lo sguardo allo spazio scenico. Non ambientava, né offriva spunti per collocare gli attori in uno spazio altro: semplicemente, racchiudeva.
Non serviva, infatti, che nella polis del teatro – sempre originato da un disagio, da una questione legislativa o morale – lo spettatore si estraniasse, accedendo a un mondo illusorio. Bastavano il testo e il canto per trasmettere i valori e le idee delle quali commedia e tragedia si facevano fondamentali promotrici. Era un teatro dedicato all’intera città, del quale servirsi liberamente, che non aveva uno spirito critico del tutto svincolato dalle influenze dei collegi giudicanti, ma che sicuramente promulgava lo svilupparsi di una realtà civile partecipata e in continuo fermento.
Nel tempo, accade qualcosa al modo di fare spettacolo e fruirne. Un mutamento che viene testimoniato non solo tramite gli scritti, i testi o le tematiche trattate in scena, ma anche – e forse maggiormente – dagli ambienti che ospitano il teatro.
Durante il Rinascimento si concretizza infatti una nuova concezione dello spazio, condizionata da regole prospettiche e architettoniche che influiranno persino sulla disposizione degli spettatori. La democraticità degli sguardi tanto cara alla polis greca è dunque destinata a perdersi, soverchiata dall’idea che la posizione ideale, quella che permette di godere ampiamente della magia illusionistica – originata da quinte armate, telai, fondali dipinti etc. debba essere occupata da figure rilevanti, come il Re o l’alta nobiltà, ai quali venivano riservati i palchetti reali.
La struttura dei “teatri all’italiana” deriva proprio da tale gerarchia spaziale, permeante l’Occidente fino all’inserimento di innovazioni stilistiche – in ambito registico e, di conseguenza, scenotecnico – ispirate dalle correnti avanguardiste novecentesche. Il modello rimane egemonico dal XVI secolo fino alle prime, inconsuete proposte di Richard Wagner, che se da un lato attenua la tendenza del disporre lo spettatore sulla base della provenienza sociale, dall’altro lato acuisce e massimizza la divisione tra palcoscenico e sala, posizionando l’apparato musicale nel golfo mistico. Qualsiasi rappresentazione viene costretta dal boccascena, una parete-diaframma responsabile della netta separazione tra platea e pubblico, cornice di un quadro statico ed estetico.
Estetica diviene, così, anche l’esperienza del vedere uno spettacolo. Tutto è sguardo intenzionato, visione organizzata. Se in ogni epoca l’ambiente scenografico e le scelte drammaturgiche sono strettamente correlate al modo in cui si fruiva dell’arte scenica, in questo caso il pubblico frequenta i teatri per ritrovarsi nelle narrazioni proposte, quasi non desiderasse conoscere, scoprire, ma vedersi specchiato oltre il manto d’arlecchino. Questo tipo di teatro mira alla precisa riproduzione del mondo e si rinnova per giungere a una forma sempre più realistica, usufruendo delle novità illuminotecniche per sviluppare le possibilità di rappresentazione del reale.
Quando termina l’era dell’andare a teatro per mostrarsi, decadono anche secoli di tradizioni stilistiche e convenzioni sociali: la scena contemporanea affonda le radici nella terra del ritorno all’essenziale percorsa da Adolphe Appia e da Gordon Craig. Il primo introduce piattaforme praticabili semplici, affinché il corpo possa muoversi liberamente sul palco e liberarsi dalle costrizioni limitanti del recitare sul limitare del boccascena. La luce, con Appia, acquisisce fondamentale importanza e rivendica il suo ruolo da protagonista: diviene parte integrante della narrazione, non più evanescente, ma solida creatrice di spazi e nascondigli, amplia e rinchiude. Gordon Craig – profondamente contrario alle scene dipinte – lavora sull’eliminazione dell’eccessivo decorativismo, riducendo all’essenziale l’oggetto solido e materico, tramite l’utilizzo delle sue forme elementari.
Il delineare un percorso evolutivo in ambito scenografico ci permette forse di capire verso quale meta il teatro si stia indirizzando, nel suo rapporto con il mondo e con il pubblico. In questa edizione di Biennale Teatro si sono finora manifestati stili e modalità completamente differenti.
Su una bianca e luminosa distesa di sale, Naturae diretto da Armando Punzo (autore delle scene con Alessandro Marzetti) indirizza l’attenzione sull’umanità e la sua fisicità, complice la semplicità dell’ambientazione senza spazio e tempo. Gli elementi scenici sono di forte impatto, seppure essenziali – talvolta alcuni di questi vengono progettati o realizzati dagli stessi attori della Compagnia della Fortezza. Si elimina il punto di fuga, non esiste più uno spettatore ideale, lo sono tutti: le sedute si dispongono su tre lati, attorno alla creazione di un universo utopico; l’occhio si perde piacevolmente e non tenta di afferrare morbosamente qualsiasi dettaglio, ma gode dell’armonica totalità di uno spazio sempre in via di costruzione.
Al contrario, si de-costruisce la grandiosa riproduzione della sala museale nella quale FC Bergman inscena Het Land Not. Tramite quinte dotate di passaggi nascosti, pareti praticabili ed effetti speciali, l’ambiente viene vissuto e sfruttato fisicamente in tutte le sue possibili varianti. La luce non acceca, è fioca e mirata: sottolinea l’interesse e indirizza lo sguardo, che non deve vagare, ma prestare attenzione.
Il contrasto è ampio, ma testimonia l’incessante metamorfosi dell’ambiente scenico e dei suoi linguaggi, che si adattano a spazi inconsueti ed evadono dai teatri tradizionali, prestandosi più facilmente al dialogo con la realtà circostante, talvolta integrandola.
La Biennale Teatro ne è un limpido esempio: un cantiere industriale diventa la terra di Nod, mentre il Teatro alle Tese può contenere la potenza di un uomo e di un mondo nuovo. E, tra qualche giorno, anche le calli e i campi dell’isola si tramuteranno in palcoscenico, coi lavori vincitori del bando Performance Site-specific 2023.

Anacronismi: frequentando il mondo dei teatri è una parola che si sente tornare spesso; e che, forse, potrebbe riecheggiare nelle sensazioni di vari (non) spettatori quando si trovano alle prese conl’opzione di andare a vedere uno spettacolo (e magari rifiutano, spaesati dalla distanza siderale fra la scena e le questioni di più cocente attualità). A volte è pregiudizio, altre “post”, ed è difficile dar loro torto, se di fronte al raddoppio del prezzo di un pacco di pasta, si prova a ri-guardare con occhio straniato un ambiente che ancora si accapiglia col (presunto) degrado della tradizione, dellanuova drammaturgia o della ricerca. 
Ma nel frattempo i teatri sono piuttosto pieni, sicuramente più dei cinema che continuano a chiudere. E non è sempre vero che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima». È che forse, dentro e fuori il settore, ci piace raccontarcelo. I riconoscimenti attribuiti negli ultimi anni coi Leoni della Biennale Teatro – da Romeo Castellucci a Thomas Ostermeier, da Christiane Jatahy ad Armando Punzo – pongono chiaramente la domanda su cosa consideriamo oggi per tradizione: quando i nomi più radicali della ricerca diventano storia, giustamente acclamati dalle più grandi istituzioni d’Italia e d’Europa. Dopo dieci, venti, quarant’anni di sperimentazioni anche estreme e radicali, non è eccessivo dire che questi (e altri) artisti, aprendo mondi, abbiano costruito nuove convenzioni teatrali che si sono imposte come canoni, ma che sono anche diverse da quello che c’era prima. 
Rispettate le dovute specificità, se tentiamo di osservarle nel complesso, si tratta di figure che, ascendendo a riferimenti trasversali della scena del nostro tempo, si sono spostate dalle zone impervie della ricerca in cui erano cresciute; così, hanno fatto spazio, lasciandosi sostituire in quell’attacco alla convenzione da chi verrà dopo o altrimenti. 
Se proviamo a traslare anche di poco la prospettiva, considerando questa, oggi, la nostra tradizione (e non più solo Shakespeare, leCommedie dell’Arte o la regia critica), forse sarà possibile anche domandarsi dove si possa trovare il contrappunto della ricerca: chi, e come sta provando a immaginare e mettere in atto un altro teatro diverso e possibile. 
Non è un problema di tradizione del nuovo, ma di cosa stiamo guardando; e, in realtà, più precisamente, da dove. È necessario chiederselo quando si esprime una valutazione sull’esistente, continuare a metter(si) in discussione e cambiare prospettiva è una responsabilità della critica. Altrimenti si finisce per dare per scontate tante acquisizioni artistico-politiche che – come stiamo purtroppo scoprendo per i diritti sociali e civili fondamentali – in verità non sono per niente consolidate. 
Di questi tempi, si vedono tanti spettacoli che lavorano su macerie, parlano per frammenti, mostrano l’inettitudine dell’umanità di fronte al mondo. Con mise en abyme più o meno esplicite, stanno ritraendo il nostro tempo, o dicono di volerlo fare. Ci troviamo sulla via dell’estinzione, nessuno potrebbe ribattere il contrario (e per fortuna per il pianeta!). Prendernecoscienza è importante e l’arte serve anche a quello. Ma è anche altro, se non lo credessimo non so perché saremmo ancora qui a inseguirla, crearla, guardarla, a farla. 
E poi, comodi intorno a tavole comunque imbandite, nei nostri salotti sempre più piccoli, davanti alla miriade di schermi che c’infestano la vita, siamo proprio sicuri che vederne l’immaginesia come poggiare i piedi su cumuli di calcinacci, sentire davvero l’odore dei cadaveri, rischiare la vita andando a manifestare in piazza? Che la prossimità percepita dinnanzi alle tragedie altruipossa – attraverso la loro riproduzione – diventar tragedia essa stessa, la nostra? E che, per comprenderci, basti raccontarci così come siamo (o, meglio, come ci auto-rappresentiamo)? 
L’estetica dell’angoscia che sempre più riverbera nella quotidianità, dalla stampa al palcoscenico, potrebbe costituirel’ennesima narrazione consolatoria e compiaciuta adatta agiustificare molteplici inerzie che, autoassolvendo, generano il piacere del consumo dell’ennesima, nuova emozione-merce (e non è un caso che tanti di questi racconti, opere, articoli si concludano con una luce in fondo al tunnel, un lieto fine possibile). 
Del resto, il sistema della produzione artistico-culturale nel contesto del tardocapitalismo contemporaneo ha (materialmente) tutto da guadagnare nel far credere che nulla si possa cambiare, che il massimo che si possa fare davanti alla catastrofe sia provare a restituirla così com’è, cioè stare a guardare. Ipnotizzati dall’osservazione delle macerie che abbiamo prodotto – siano esse della democrazia, del vivere civile, delle neo-avanguardie teatralio della critica militante –, abbiamo un’ottima scusa: non dico per non provare a ricostruire qualcosa, ma nemmeno per raccogliere qualche pezzo o tentare di fare un minimo di pulizia. E, intanto, continuare a tagliare alberi per andare avanti a parlarne.

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