fbpx Biennale Teatro 2023 | Giorno 13: Chi ha paura del regno di Oz?
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop di critica teatrale

di Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi
Giorno 13: Chi ha paura del regno di Oz?

Che poi a me Dorothy ha sempre fatto un po’ paura. Con quelle scarpette rosse, gli spaventapasseri che parlano, i maghi, le streghe buone e cattive. In fondo anche Alice è un po’ inquietante: vi buttereste, voi, giù a capofitto sulle tracce di un bianconiglio? E quel gatto che ride e scompare? Roba forte. Per non parlare poi del lisergico Piccolo principe, con quei “trip” tra i mondi, i suoi elefanti ambigui, quelle volpi che parlano e vogliono essere addomesticate. E che vogliamo dire degli orrori dei Grimm? Lo sapeva bene Vladimir Propp, quando scandagliava la morfologia della fiaba, che c’è sempre da fare i conti con il lato oscuro (della forza?) quando ci si perde nei boschi delle favole. Perché dietro ogni storia fantasiosa, incombe la mole della realtà. E non fa sconti. Questo Emerald biennalesco reinventato dai direttori, alla fin fine, non cerca la grazia edificante, l’edulcoramento ad uso e consumo di adulti-bambini. Piuttosto squaderna in scena una articolata prospettiva sul contemporaneo che non nasconde, non rappacifica. Basta leggere in filigrana gli spettacoli passati in cartellone: dalle utopie di Armando Punzo che divampano nel microcosmo angosciante del carcere, alle “personcine” sovrastate di FC Bergman; dalle introverse inquietudini esistenziali del Dramaten al funereo allestimento di El Conde de Torrefiel; dai fantasmi di Valerio Leoni alle inquiete “addormentate” di Carolina Balucani, fino al coro di donne palestinesi alle prese con il martirio dei giovani uomini di Bashar Murkus. E intanto Boris Nikitin porta il suo Amleto in musica a confronto con la morte del padre, in un clima di ospizi e di solitudine della terza età; mentre Romeo Castellucci, da par suo, indaga una presenza femminile “fuori squadra” per evocare un disagio psicofisico, condiviso e condivisibile di chi non si identifica con questa realtà, con uno sguardo sul “perturbante” che combatte – dice il regista in una intervista – il senso dell’Essere. È il “fatto”, il “miseramente ontico”, altro che favole. Andiamo pure Over the rainbow, ma qui, alla fine dell’arcobaleno, non ci sono pentole d’oro, semmai – e per fortuna – manciate di realtà con cui fare, ostinatamente, i conti.  

Andrea Porcheddu

Quella della Misericordia è stata una tra le sette “Scuole Grandi”, massime istituzioni sociali della Serenissima. Di gusto gotico, sorge agli inizi del Trecento per essere completata poi quattro secoli dopo, quando è stata impiegata prima come alloggio militare, poi magazzino e infine Archivio di Stato. Dal 1914 diventa, perfino, il tempio dello sport veneziano. Il salone del primo piano, dove sono affrescati i dodici profeti maggiori dalla scuola del Veronese, è un contenitore imponente, secondo per grandezza solo a quello di Palazzo Ducale. Un luogo, non casualmente scelto, abitato in questi giorni dalla performance domani di Romeo Castellucci.
Entrando all’interno dello spazio vuoto, è visibile la figura imponente di una donna (la performer brasiliana Ana Lucia Barbosa). In trench verde scuro, a occhi chiusi e a piedi nudi, tiene con le lunghe dita delle mani un ramo. Quest’ultimo termina in alto con alcune languide foglie verdi e la sua base è inserita all’interno di una sneakers All Star, flessa come in una mezza punta; questa aderisce al suolo con l’inizio della camminata della performer, con lo stridio aguzzo della plastica che sfrega il pavimento. Nel cieco avanzare, la mano sinistra colpisce con un tremolio senile un piccolo ramo, satellite del suo “bastone-guida”, abbandonato poco dopo per terra. La performer indietreggia, allora, a occhi chiusi fino a prendere contatto con la parete retrostante. Slacciando la cintura del trench, che lascia scivolare, rimane con una sottoveste avorio, rivelando le gambe nude. Inizia a piangere, la maschera verosimile che indossa si scolla dal volto. Apre gli occhi. Occhi bianchi e denti neri. Gocciola lacrime e sudore. Il pubblico in piedi si scansa ma la segue, come in processione, lungo tutta la lunghezza della sala. Il suono del pianto si interseca a quello affranto di alcuni uccelli. Puntando contro le pareti, la donna corre e scaglia il suo ramo contro esse. Ogni colpo della scarpa sui muri coincide con i boati potenti di Scott Gibbons, sempre più ostinati, cupi e risonanti. L’ultimo tonfo ha un’eco simile al rimbombo di una valanga. La donna si riposiziona al centro, come all’inizio, ma a occhi aperti. Quindi, il pubblico è invitato a uscire.
L’azione perturbante, incomprensibile ed evanescente crea uno scollamento dalla realtà come un trauma, avvolta com’è da una stratificazione di suggestioni (dall’arcaico all’apocalittico). La pelle della performance trasuda l’espressione cattedratica dell’oracolo, la sofferenza del Terzo Mondo, le sorti compromesse della Terra, il più intimo dramma personale. Le possibilità interpretative sono davvero infinite e nel momento in cui ci si ritrova a decifrare, “a metabolizzare” la visione, ci si rende conto che quella strada è un vicolo cieco e guardando la performance questo è chiarissimo. L’intenzione dell’autore è palesata nella sinossi del lavoro: «domani diventa un produttore di emblemi e segni: immagini mute che hanno il solo bisogno di essere viste». Domani è per l’appunto una performance concettuale che usa come significati indissolubili il corpo e la musica. Il primo, della performer, mistress di professione, è un corpo pieno di segni che si dilata in uno spazio consapevolmente abitato in tutta la sua vastità. La seconda, a opera di Gibbons, si lega sadicamente a quei segni, approfondendoli, contestualizzandoli in un’era sospesa che è quella dell’assurdo e della possibilità. Come bisogna posizionarsi davanti a questa visione che ha solo bisogno di essere vista? La percezione ha sempre a che fare con un esterno che entra dentro il nostro corpo permeato di pensiero. Il concetto – che è quello di chair (letteralmente carne) di Merleau-Ponty – potrebbe essere impiegato per cercare di comprendere il gioco costruito da Castellucci. Più che l’attenzione e l’emotività del pubblico, è possibile credere che sia stato sollecitato il ruolo, il posizionamento dello spettatore? Nel guardare piangere ma indietreggiare, nella fruizione pare costruirsi il senso di appartenenza a una classe morta colpevole. Come gocce d’olio in un bicchiere d’acqua, il patto di incredulità, che tacitamente il pubblico accetta entrando, è condensato e portato a galla. Questa visione potrebbe essere riduttiva, oppure no, e – se fosse vero – Castellucci reclama questa passività, comunque, senza rivoluzione. In ogni caso, quel bisogno di essere visto a cui rimanda la citazione dalle note dello spettacolo è un’istanza da custodire. Attenzione, cura, necessità sono “avvertenze” di un utopico “bugiardino” della ricezione; e l’artista, che lo voglia o meno, ce lo ricorda.

Nelle conversazioni che hanno fatto seguito alle mise en lecture dei testi vincitori del bando Drammaturgia Under 40 del 2022, si discuteva delle testualità sceniche che si erano potute ascoltare e del processo di elaborazione che ha condotto autori e registi a quell’esito. D’un tratto risuona una domanda, un interrogativo capace di far cadere tutti i presenti in un istante di profondo silenzio: qual è lo stato della scrittura per la scena oggi in Italia? Al di là delle impressioni che ognuno può avere, va detto che leggere il presente in cui si è immersi è un esercizio tutt’altro che semplice, per lo più inevitabilmente compromesso dalla parzialità di uno sguardo che non può raccogliere tutti i dati necessari.
Forse, più che tentare di definire l’impossibile stato dell’arte della drammaturgia, più fecondo potrebbe rivelarsi ascoltare le voci dei giovani autori e autrici, e scrupolosamente verificare la struttura, il linguaggio e le modalità dei loro testi. Le mise en lecture alla Biennale Teatro consentono un affaccio particolare nei territori della scrittura per la scena, che si possono sondare a partire da alcune considerazioni svolte direttamente intorno alle testualità. La lettura di Addormentate può dunque dire qualcosa in merito agli indirizzi e allo stato della drammaturgia italiana. 
Il testo è di Carolina Balucani, che lavora non solo come autrice ma è anche un’attrice. Da qui discende il riflettersi delle sue esperienze sceniche sulla creazione. La lettura della sua opera ha consentito agli astanti di verificare una drammaturgia immaginifica, che accosta diversi registri espressivi: dal tono ingenuo, un po’ bambinesco di certi passaggi a periodi più tragici che raccontano un dolore profondo. Si tratta di un testo apparentemente impulsivo che affastella un ricco campionario di immagini e che sembra offrire invitanti suggestioni sulle quali il regista – che è Fabrizio Arcuri – ha potuto lavorare.
In scena Vincenzo Crea, Gabriel Montesi, Andrea Palma, Dajana Roncione, Maria Roveran: pur leggendo, copioni alla mano, hanno dato vita ad una dinamica scenica che può dirsi movimentata. Dopo l’introduzione della “didascalia” e il sopraggiungere degli attori in scena, gli interpreti invitano il pubblico a ballare. Lo spettatore viene dunque introdotto nel mondo sognante di Addormentate, un luogo dove si cammina a passi di danza e che al tono magico di un movimento incantato accompagna il pericolo della ferita, segnalata scenicamente da un guanto rosso. In una sezione corale della lettura, che si svolge sulle scale di fondo di Sala d’Armi in Arsenale, gli attori battono furiosamente la mano rivestita dal guanto contro la parete, mentre l’interprete della didascalia mette in fila dei quadrati di erba sintetica che si colorano di coriandoli e di piccoli omini danzanti. Il testo, insomma, si balla e si suona: gli attori si muovono freneticamente nello spazio e i leggii, spostati di continuo, cominciano a ballonzolare anch’essi. Non può conoscere stasi la parola della drammaturgia di Balucani. I corpi degli interpreti fremono, desiderano il movimento. La mise en lecture di Arcuri non vorrebbe essere una lettura. Si potrebbe dire che il testo stesso non vorrebbe essere letto. Piuttosto sogna di muoversi.        
Dall’altra parte, la scrittura è irreggimentata in una struttura ritmica ben precisa, che dispiega un ritmo puntato, a scatti. Vi è nell’opera ascoltata qualcosa di nevrotico che entra in una singolare osmosi con la dimensione di sogno che tematicamente informa tutto il lavoro.
Si può essere certi anche di un altro fatto: il testo di Balucani è visceralmente legato alla scena. Sembra essere spuntato dalle tavole di legno di un palco, dai passi di danza di un performer, dalla lingua di chi vive per la scena.
A voler essere maliziosi però, sulla base dell’ultima affermazione, si potrebbe sottolineare che la nuova, nuovissima drammaturgia sembra non conoscere altra vita al di fuori di quella che si consuma tra le pareti di un teatro.
Dopo le parole del testo e quelle delle conversazioni intorno alla scrittura torna ancora il silenzio. Dunque, di nuovo l’assenza di voci. L’istante muto che segue alla domanda sullo stato della drammaturgia è l’eloquente attestazione di un interrogativo aperto, che ci turba e per il quale le risposte sono ancora tutte in divenire.

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