fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 6
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 6

Dinamiche rizomatiche in tensioni permanenti: questa Biennale Teatro decentra – fisicamente, fino a Mestre, per Kornél Mundruczó o emotivamente per il Testori di Roberto Latini – aprendo varchi nelle strutture emotive di parole intense, moltiplicando sguardi e prospettive, intessendo dialoghi e intrecci umani oltreché artistici. Il teatro quanto mai declinato in possibilità, in aperture corpose di creatività espanse. Proviamo, qui in redazione, a discutere e analizzare le proposte che la direzione artistica ha dipanato come acrilici su una tavolozza. E mentre le forze dell’ordine circondano i teatri per i motivi di sicurezza dovuti al G20, noi scriviamo di Hard to be a God, di In Exitu e di quei fondali che, in scena, non sono “solo” sfondo.

Accasciato in uno dei bagni della Stazione Centrale di Milano, Gino Riboldi ripercorre la propria miserabile esistenza negli ultimi istanti che lo dividono dalla morte: la nascita nella periferia milanese, la prigione, la prostituzione, l’eroina. È il 1988 e Giovanni Testori riporta questa vertiginosa panoramica nel suo ultimo romanzo, In exitu, salutato fin da subito come un capolavoro della letteratura e del teatro contemporanei. Nell’autunno dello stesso anno, infatti, Testori stesso lo mette in scena, ritagliandosi alcuni spazi sul palco del Teatro della Pergola, per il resto dominato da Franco Branciaroli nella parte del protagonista.

Nella prefazione alla nuova edizione del romanzo, l’attrice Sonia Bergamasco annota: “È una lingua liberata, quella di Gino, delirante e fuori dal solco. Una lingua trivellata che ci attrae e repelle”. Parole che paiono adatte anche allo spettacolo con cui Roberto Latini irrompe per la prima volta all’interno della Biennale Teatro. Il suo In Exitu è frutto di una prova attoriale e performativa di solidità straordinaria, capace di trasmettere le punte e le asprezze della lingua di Testori con implacabile violenza. Lo spazio resta quasi immutato nel corso dello spettacolo e vede l’attore romano claudicare senza sosta su un tappeto di materassi, delimitato da un fondo di teli bianchi mossi dall’aria e, verso la platea, dalle rotaie di un treno. Il microfono di cui Latini si serve per l’intera messinscena permette alla sua voce, modificata alla consolle da Gianluca Misiti, anche autore delle musiche, di riecheggiare nelle sue tinte più dure, spezzate e gutturali e di restituire, così, l’affanno della lingua di Testori: l’attore sembra quasi manlevarsi dalla trasmissione di un significato ben definito, per affidarsi alla natura tagliente del segno. Se il filo conduttore della Biennale Teatro individuato da Stefano Ricci in un incontro con la nostra redazione è la resa sulla scena di una “parola atletica”, lontana dalle logiche mimetiche di rappresentazione, quella espressa da In Exitu potrebbe definirsi ‘parola muscolare’, smisuratamente votata allo sforzo fisico, all’invariabile e soffocante compressione del tono e del ritmo. Ci si sente oppressi dalla mole di suono che arriva dal palco, costretti in uno spazio sempre più angusto, e liberati soltanto grazie alla morte del protagonista, che letteralmente ci libera dall’affanno.  

L’identificazione di Gino Riboldi con il Christus patens, suggerita anche da Sonia Bergamasco e dalla studiosa Laura Pernice, trova qui un senso che va al di là del ricorsivo riferimento di Testori al Golgota. Se la luce che “lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere” sembra accompagnare questa figura verso una speranza di salvezza e redenzione, in Latini essa assume la forma di una prosaica e monumentale palla da tennis. L’innalzamento di una rete di fronte alla distesa dei materassi, trasforma idealmente la scena in uno sterminato campo da gioco, in cui Gino continua a essere ostaggio dei capricci del destino, perso in una partita di cui gli sfuggono le redini.

Dopo l’uccisione del leader di al-Qaeda Osama Bin Laden, nel 2011, il presidente Barack Obama avversò fortemente la possibilità di condividere fotografie del corpo della vittima, a causa di un presunto potenziale rischio di portata nazionale.
Fra le varie letture possibili di questo episodio, una si collega in maniera calzante al discorso portato avanti da Hard to be a God, spettacolo messo in scena da Kornél Mundruczó e la sua compagnia Proton Theatre: in che modo una esperienza visiva può essere percepita a tal punto come orrorifica da minacciare la sicurezza di un Paese? I dieci interpreti in scena imbandiscono tableuax vivants che si nutrono di contemporaneità, ricostruendo uno squallido microcosmo, che attraverso l’abilità mimetica di attori e attrici prende vita.
Il percorso della messa in scena inizia ancor prima di approdare sul luogo: la mimesis comincia arrivando al Parco Albanese di Mestre, così diverso dagli altri spazi performativi in cui si snoda la Biennale Teatro.
Di fronte alle transenne, prima del controllo di rito, inizia la discesa: un attore con un camice corto e dismesso e le mani coperte di sangue, urla a chi è in fila una incomprensibile richiesta di aiuto. Molto presto le sue sconnesse parole diventeranno un tassello fondamentale del percorso verso il baratro. A delineare lo spazio sono dei grossi camion disposti ad angolo retto: nel primo, una vera e propria casa/rifugio mobile, la maitresse Mamy Blue – nome preso in prestito da una celebre canzone pop anni ’70, ritornello cantato lungo il corso di tutto lo spettacolo – diventa maestra di cerimonie. Il secondo camion, messo perpendicolarmente rispetto al primo, rappresenta invece l’ingresso disturbante in un universo visivo, che cresce esponenzialmente sotto lo sguardo spiazzato del pubblico: sarà il set di un orrorifico videomessaggio programmatico. Lo spettacolo racconta infatti il tentativo di un regista-paraninfo, figlio di un celebre europarlamentare (che tuttavia rimarrà anonimo per tutto il corso della vicenda), di produrre un video amatoriale dal gusto sadico che documenti l’omicidio di sua sorella da parte dell’incestuoso padre. Nell’intento, sarà aiutato dal figlio illegittimo nato dal rapporto, cresciuto nascosto dalla società all’interno di uno dei due camion. Per la riuscita dell’impresa viene ingaggiata proprio Mamy Blue, cortigiana d’altri tempi che, come una sacerdotessa, sceglie le sue vittime sacrificali: tre prostitute minorenni, già disincantate, iniziate come delle vestali, attraverso uno squallido rito di purificazione, fatto di analisi delle urine e raschiamenti abortivi. Nessun training precedente, tuttavia, può prepararle a ciò che le aspetta: l’intento di denuncia prenderà un’inquietante deriva e le tre fanciulle verranno umiliate e segnate, ben oltre qualsiasi limite prospettato: la prima infatti perderà la vita (nuda, coperta di terra e con il collo rotto) e le altre due ferite in maniera permanente (una ustionata a secchiate di acqua bollente e l’altra costretta ad abortire e a vagare spoglia e terrorizzata per la scena). La missione diventa veicolo di una violenza che si propaga, come le pozze di sangue che macchiano il terreno antistante alla scena. 

La drammaturgia di Hard to be a God è un sistema di scatole cinesi che si interpolano fra loro. A partire dall’omonimo testo fantascientifico dei fratelli Strugatsky, che ipotizza un mondo parallelo fermo al medioevo, Kornél Mundruczó innerva una riflessione sul potere performativo dello sguardo violento. Non è un caso, che le atrocità maggiori arrivino attraverso una telecamera e che la stessa riprenda anche il pubblico, che si trasforma in un voyeur non meno sadico di quello messo in scena. Hard to be a God apre le porte sui meandri più oscuri che sono abituali nel deep web agli “avventori” della Biennale Teatro, mettendo in discussione qualsiasi giudizio etico o di valore. E resta nella memoria il gesto estremo di gettare a terra il piccolo feto abortito di una delle protagoniste, che rimane come spettatore inatteso e silente del dramma appena compiuto.

A volte, in uno spettacolo, racconta di più quello che si trova nel fondo del palco piuttosto che quello che viene presentato nel proscenio.
Dopo più di un anno di clausure e semi-clausure, il nostro sguardo è cambiato: in interminabili e spesso vacue sessioni di zoom call, skype call, call call, capita spesso che le pupille smettano di mettere a fuoco i lineamenti pixellati del nostro interlocutore e vadano a posarsi con una febbrile curiosità sullo sfondo del luogo in cui avviene la chiamata. In base a tali scenari, benché diversi fra loro, si possono trovare alcune macro-categorie corrispondenti ad altrettanti macro-gruppi umani: i più intellettuali, o sedicenti tali, si mettono di fronte a ricche librerie; dietro ai più sciatti si staglia un muro con le macchie di umidità; i più diffidenti applicano un effetto-web che crea una sorta di nebbia per oscurare e impossibilitare il riconoscimento del locus.
I dettagli parlano più delle parole, nella vita come a teatro.
Gli imponenti fondali di pietra dei teatri romani rimasti in piedi, come quelli di Orange o di Aspendos, testimoni delle antiche scaenae frontes romane, impressionano ancora oggi per la loro maestosità, con i loro marmi e le colonne corinzie, ma non ci parlano più: prendono vita solo se fossero ancora il milieu di un’azione scenica in atto.
Quando un tavolino viene sostituito con un altro, tra il primo e il secondo tempo dello spettacolo, non tutti se ne accorgono; ma se è il background, nel senso fisico del termine, a cambiare, tutta la platea e tutti i loggioni si chiederanno “e ora cosa avverrà di diverso?”. La sua variazione corrisponde al mutamento di uno stato d’animo, in chi recita e in chi guarda.
Gli sfondi giocavano un tempo principalmente sulla verosimiglianza, come degli enormi trompe-l'œil che solleticavano la fantasia evocativa del pubblico. Poi, col tempo, si è reso evidente che bastava una luce, un’ombra, forse anche un fondale “senza-fondale”, nudo e scarno, per raccontare una storia. La funzione didascalica degli sfondi non è mai passata veramente di moda, ma ciò che è cambiato forse è lo sguardo degli spettatori.
In questa scorpacciata di pièce della Biennale Teatro, i fondali hanno parlato tantissimo: delle sedie dietro una sorta di serra, con luci al neon per rendere lo squallore e l’indifferenza di grotteschi funerali, come in We Are Leaving di Warlikowski; la disperazione che si percepisce dai dipinti personali in Nel lago del cor di Danio Manfredini; lo sfondo crudo e metallico del Teatro Goldoni, in una continua metamorfosi di fari, sipari e sagomatori, protagonisti dello spettacolo di OHT, per raccontare una visione artistica complessa; gli schermi luminosi e semoventi di Agrupación Señor Serrano, via di mezzo fra scenario e oggetti di scena, che mettono il dubbio su cosa sia vero e cosa no.
Scrutiamo il ciclorama per ritrovare qualcosa di noi, di familiare, che rassicuri e sorprenda allo stesso tempo. Valutiamo spesso ciò che sta dietro, se quello che c’è davanti fa paura o non convince fino “in fondo”. Andare oltre le apparenze, scandagliare il fondale, non fa di noi dei morbosi, ma degli osservatori ostinati e speranzosi.
Lo sfondo delle messinscene resta dentro chi osserva più di quanto si pensi: lascia un ricordo forte, a volte indelebile, delle volontà nascoste degli artisti, conquistandoci talvolta perdutamente, contro le nostre aspettative. È come quando, durante una call online, notiamo nella libreria del nostro interlocutore il dorso di un libro che abbiamo sempre amato: la cosa ci rende, d’un tratto, molto più propensi a sorridere con chi stiamo comunicando, a guardarlo con nuovi occhi, ad ascoltarlo di più. Il dulcis in fundo coinvolge emotivamente, senza che la logica, dittatrice indiscussa del nostro pensiero, possa metterci mano, per una volta.

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