Ora, un ultimo passo: andare oltre, per chiudere un percorso, cercando comunque di tenerlo più aperto possibile.
Forse si può ipotizzare che, per quel che riguarda il teatro, un laboratorio – che sia di clownerie, di espressione fisica e vocale, di drammaturgia o di critica – non inizi e non finisca davvero: entra nel lavoro, pratica un esercizio costante di tensione, invade le zone di comfort in cui una professione si irrigidisce e fa fluire dubbi e possibilità. A volte cambia la terra sotto i piedi, a volte sono i piedi che la fanno cambiare. Si dovrebbe parlare allora di spostamenti: alterazioni di luogo e raccordi attraverso tempi diversi, rigenerazioni, messe in dubbio di stati, temperature, condizioni.
Generare tale possibilità – sul palcoscenico e oltre – è una delle qualità più potenti del teatro; come propagarla attraverso pensieri, testi e addirittura azioni critiche, una delle responsabilità a cui questo laboratorio ha voluto far fronte. Accompagniamo la chiusura di Biennale Teatro con una riflessione su queste azioni invisibili che hanno abitato i margini di profondità del Festival, spostandoli, se possibile, altrove.
Nata il 5 marzo del 1953 ad Altstatten, in una Svizzera in cui il suffragio universale federale femminile sarebbe arrivato solo nel 1971, Gardi Hutter – attrice teatrale, autrice e drammaturga – è stata una pioniera della comicità clown al femminile, creando il suo ormai iconico personaggio, Hanna. Dal 1981 lo porta in giro per i teatri, arrivando nel 2025 a Venezia con Giovanna D’ArpPo. Biennale College Teatro 2025 fa tesoro di questa notevole esperienza, affidandole uno spazio laboratoriale dove poter trasmettere alla nuova generazione il suo lavoro sull'essenza del clown, indagandone anche gli aspetti più oscuri e profondi.
Riscaldamento
Dalla platea del Teatro Piccolo Arsenale, ho potuto assistere alla restituzione teatrale del laboratorio, un’opportunità unica attraverso la quale ho appreso, indirettamente, solo alcuni dei segreti di questa maschera. I ragazzi sono disposti in cerchio ed eseguono movimenti coreografici guidati dall’istinto; il gruppo segue il singolo e viceversa, in un lavoro di complicità e affiatamento che, con la supervisione di Hutter, assume un significato poetico. Dopo venti minuti di riscaldamento, i corpi sono pronti per agire sulla scena e così la mente, libera, può finalmente impadronirsi dei personaggi su cui i giovani aspiranti clown hanno lavorato nei giorni precedenti. La restituzione è avvenuta dopo quello che l’artista chiama “il giorno nero”: un giorno in cui ognuno dei partecipanti doveva condividere un momento difficile della propria vita per poi poterlo esorcizzare. “L'architettura del clown è arcaica e crudele”, rivela Gardi Hutter.
Performance
I giovani artisti scompaiono dietro le quinte per poi riprendere il posto sulla scena con abiti e sembianze diverse: corpi che assumono forme innaturali, talvolta assurde, divertenti.
Indossato il naso rosso, comincia l’azione. Un ragazzo alto, capelli lunghi fino alle spalle, gilet, larghi pantaloni a righe bianche e blu e un cappello: sul palco sembra teso, fragile... forse è proprio questa caratteristica che ha reso il suo personaggio clownesco tanto forte.
I partecipanti che non si esibiscono a turno interpretano il pubblico, prima silenzioso, poi, per richiesta esplicita di Hutter, “crudele”.
Essere crudeli nei confronti di chi sta in scena significa aiutare l’attore a rafforzare il suo personaggio attraverso il contatto con lo spettatore – sia esso diretto o indiretto. Il giovane clown chiede ai compagni di riprodurre attraverso la voce una musica, ritmata magari; iniziano quindi a giocare con i suoni, mentre i movimenti dell’attore sono esagerati, estrosi e pieni di energia, le risate degli altri risuonano nella sala e così le mie. I ragazzi si voltano a guardarmi.
Seconda azione. Una ragazza, questa volta, porta sulla scena il racconto di un doppio: il suo “io” interiore e il suo “io” esteriore, due parti che dialogano fra loro e con gli altri compagni di laboratorio. “Voglio raccontare della solitudine”, spiega la giovane al termine della sua performance, confrontandosi col gruppo. Il clown è un personaggio teatrale tormentato, tragico, che lavora sulla dicotomia tra crudeltà e fragilità; attraverso il gioco, gli attori possono entrare in contatto con le loro zone d’ombra, affrontare il conflitto con sé stessi, tornare bambini, versare lacrime sul passato per poi raccoglierle, farne tesoro ed esorcizzarle. L’esibizione è una grande sfida, una prova nella quale gli attori sono “nudi”, spogliati di qualsivoglia tecnica e linguaggio convenzionale.
Quando il naso rosso si toglie, l’esibizione è conclusa.
L’obiettivo primario di un clown, ricorda Gardi Hutter, è quello di raccontare una storia. Il clown, figlio di un lavoro interiore, non deve solo far ridere ma portare sul palcoscenico una narrazione comica. Bisogna partire dalle proprie origini, dalle proprie radici, dai ricordi personali, da ciò che abbiamo dimenticato e di cui vorremmo aver memoria; ricominciare da sé, dalle proprie cicatrici per poter dare vita a un personaggio teatrale estremamente umano, dal potenziale comico, chiamato: clown.
Dai capannoni bianchi di Forte Marghera si levano delle voci, udite da me, da alcuni attori che riposano sul prato, e forse da qualche gabbiano. Entrano nel dominio dell’effimero, di quelle manifestazioni che rimangono come baluginii nella memoria e poi sbiadiscono, lasciando però traccia della loro presenza. Questo è il regno della performance, che nella testimonianza del pubblico perpetua la sua esistenza. I laboratori di questa Biennale Teatro sono invece creature a rischio, anche perché sfuggono alla logica della restituzione finale. Questa loro qualità è ambivalente: da un lato, rappresentano occasioni uniche per coloro che vi prendono parte di lavorare senza focalizzarsi solamente sulla progressione del proprio lavoro; dall’altro, fanno sì che ciò che accade dentro quegli spazi avvenga come un processo alchemico, misterioso e invisibile agli occhi del pubblico. L’ascolto critico permette di testimoniare la presenza delle voci degli e delle artiste, facendole risuonare lontanamente, dalle eco di quei pomeriggi del 10 e 11 giugno.
In particolare, il mio orecchio si pone all’intersezione del sentiero di ghiaia tra gli edifici dove si svolgono i workshop, quello di Thomas Richards a sinistra e quello di Princess Isatu Hassan Bangura a destra. A collegarli non è solo questo tragitto, ma una trama comune: la tradizione di ricerca vocale e fisica che si dipana da Jerzy Grotowski. Di qui, si dipartono due fili: uno più “lungo” e diretto – quello di Richards – e uno più “corto”, che arriva tramite la mediazione di Milo Rau – quello della giovanissima Bangura; entrambi si intrecciano in un arazzo che ritrae generazioni diverse, tangenti in corrispondenza di determinati nodi.
Questo incontro avviene anche in modo letterale: i partecipanti al workshop di Bangura assistono all’ultimo giorno di quello adiacente, disponendosi attorno al groviglio di corpi delle altre persone. Richards introduce il proprio approccio, citando riferimenti teorici precisi (Jung, l’embodiment, il Wu Wei). Bangura invece, il giorno successivo, dichiara: “I don’t know how to name what I do, but I do it”.
La dissomiglianza tonale ritorna nelle indicazioni che accompagnano gli esercizi fisico-vocali delle sessioni di lavoro. Il raggiungimento dello stremo – fisico ed emotivo – è qui e lì lo strumento con cui abbattere le resistenze espressive. Richards invita a non temere il giudizio esterno; Bangura dà il La a un coro millennial di “fuck off!” alle restrizioni. Poi lei si allontana dalla pedana, osservando come ogni performer contribuisca a trovare una dinamica comune a partire da esternazioni individuali libere: il gruppo si forma fluidamente cantando e muovendosi. La direzione di Richards è invece costante: i corpi sono guidati dalle sue mani, tramite contatto diretto o trasmissione di energia invisibile. In entrambi i casi, movimenti e suoni originano spontaneamente e in stretta connessione con il respiro: un respiro vibrato, strozzato da riso e pianto, mai automatico, che coinvolge tutta la bocca.
Il lavoro di Richards e Bangura affonda le radici rispettivamente nell’esplorazione delle tradizioni canore afro-caraibiche e delle pratiche performative ancestrali. Uno degli esiti della loro esplorazione è l’allineamento dell’asse interiore, dalla punta della testa alle piante dei piedi, fino al raggiungimento di un’armonia corporea e spirituale. L’approccio di Richards è rituale nel senso più “religioso” del termine: l’esercizio teatrale si apre con una pratica di canto quotidiana che genera un sentimento di straniamento estatico. “Every time we do something profound, you’ll be scared”, si leva la sua voce, e il concetto di paura ritorna nel corso della pratica. Egli sconsiglia tuttavia ogni espressione codificata: il testo dei canti rimane sconosciuto al gruppo, in modo che sia possibile concentrarsi sull’espressione scevra dal significato, così come i movimenti non si traducono in danza. Bangura, al contrario, accoglie tutto: dopo aver ricordato i versi di una canzone durante lo stretching, fa partire la sua playlist, caratterizzata dai ritmi dell’Africa occidentale, che si mescolano ai versi animaleschi gridati da attori e attrici – un rituale festivo, celebrato da veri e propri party animals.
Ed è forse nell’uso della tecnologia che diventa più evidente la distanza che intercorre tra i fili che attraversano le generazioni di questa ricerca. Mentre Bangura porge il microfono a una delle partecipanti che intona un proprio refrain, nella stanza a fianco non ci sono dispositivi: solo la pura voce e il corpo.
Rimane però il medesimo assioma di base – body is voice, voice is body – che evoca in un certo senso la doppia articolazione del motto di questa Biennale. A variare è la direzione dell’equivalenza: se per Richards è il corpo a emergere dalla voce, per Bangura è la voce a emergere dal corpo. In ogni caso, che sia la carne a cantare o la voce a incarnarsi, le loro tracce permangono qui, nella loro condivisione. Oltre i tetti di Forte Marghera, e oltre i margini della visibilità.
“Perché stavolta è diverso?”, si chiede Ursina Lardi nel discorso che segue la consegna del Leone d’Argento 2025 tributatole di fronte al pubblico di Biennale Teatro. L’attrice manifesta così la necessità di lasciar entrare, all’interno delle tappe regolamentate della cerimonia, l’hic et nunc, non di uno stato emotivo personale, ma di una condizione collettiva. Lardi decide di non soffermarsi su cosa questo riconoscimento possa rappresentare per la sua carriera, scegliendo piuttosto di condividere con la platea che l’ascolta una riflessione lucida e generosa che cerca di interrogarsi sul senso di un premio (e quindi del teatro in generale) rispetto a un mondo mondo che, intorno, percepiamo stare bruciando ogni giorno di più.
Uno dei cartelli allestiti da Pier Paolo Pasolini per la prima del suo Orgia (1968) recitava “l’attore è critico”. In questo senso, ci sembra che Ursina Lardi – le cui parole, speriamo, risuoneranno a lungo non solo nelle orecchie di chi era presente a Ca’ Giustinian – sia stata davvero “critica”: ovvero, assumendo la responsabilità di collocarsi in un territorio di vulnerabilità, ha posto una domanda giusta. “Giusta”, perché difficile, ma anche perché generatrice di altre domande, nuove, che possono continuare ad agire sotto pelle, all’interno della pratica quotidiana del pensiero critico individuale e collettivo, rispetto sia al teatro che vediamo, sia al mondo che ci sembra stia cambiando, che inevitabilmente ci cambia e che, pure ostinatamente, vogliamo continuare a cambiare.
E non c’è forse un orizzonte più chiaro lungo cui situarci per dare un’idea dell’impostazione filosofica del nostro workshop: un tentativo di immaginare e praticare il mestiere critico apparentemente diverso dal solito ma che, in verità – almeno dalle “cantine romane della critica” invocate da Leo de Berardinis a metà degli anni Novanta –, ha potuto nel tempo prendere vita più volte, modificando almeno in parte metodi, pratiche, visioni e trascorrendo in varia maniera di generazione in generazione, attraverso prospettive molto diverse fra loro eppure almeno in parte, appunto, congiunte.
Perché, allora, “stavolta è diverso”?
Perché questo lavoro, anziché confermare l’esistente, ha scelto di innescare un dialogo – a due, ma in realtà, sempre, a più teste, voci, corpi. A partire della memoria viva dei laboratori della Biennale ronconiana del 1975, ha attraversato la presente edizione diretta da Willem Dafoe, per tracciare i “sintomi” di una critica del futuro: quella che forse si manifesterà nella Biennale Teatro del 2075, di cui abbiamo voluto iniziare ad immaginare e applicare concretamente le pratiche.
Fin da subito, in questi tempi che si fanno via via più solitari, abbiamo inteso il nostro laboratorio in un’ottica collettiva. Ci siamo dati poche, semplici regole: per esempio, cambiare premesse, approcci e applicazioni ogni giorno, lasciandoci toccare dal teatro e dalle persone che lo fanno, anche oltre il palcoscenico; interrogarci seriamente sul corpo della critica, sulla sua consistenza, la sua posizione, il suo agire all’interno del Festival in rapporto alle comunità che lo costituiscono; esplorare altre posture, al fine di provare a restituire quello che è ancora uno dei misteri del teatro, cioè l’incontro, sempre uguale e sempre nuovo, con l’alterità che – nello spettacolo e oltre – si rinnova e lo rifonda ogni sera.
Nella concretezza quotidiana del workshop abbiamo:
Da questo punto di vista, abbiamo dato la priorità, non all’autoreferenzialità del nostro mondo di “esercizi”, ma alla necessità di farci attraversare, davvero, da tutto ciò che Biennale Teatro tiene dentro di sé e può condividere. Confrontare l’approccio critico-relazionale sperimentato in laboratorio con il programma del Festival, irradiante intorno alla questione dell’attorialità, ha rappresentato soprattutto la possibilità di legare passato e presente per provare a immaginare un futuro. Ce lo aspettavamo, ma forse non del tutto o comunque non in questo senso.
Così, man mano, si sono generate nuove domande, esperimenti, esiti, i migliori dei quali, secondo noi, sono ora quelli del tutto inattesi, nel momento in cui il workshop ha oltrepassato i limiti delle pratiche critico-formative usuali, riuscendo a coinvolgere attivamente le altre comunità che stavano prendendo parte a Biennale Teatro. Dobbiamo ringraziare tutte e tutti di cuore per questo loro contributo: che sia stato uno spunto di lettura, una canzone da ascoltare per approfondire un articolo, il dono di una parola in più o in meno; un aiuto taumaturgico nelle correzioni delle traiettorie (nei testi come per strada – a Venezia può succedere); discussioni condivise o nuovi progetti da discutere, personali e comuni.
“Perché stavolta è diverso?”. Forse si è trattato di continuare a stare sulla soglia – da soli e tutte insieme, come nei Mangiatori di patate di Romeo Castellucci –, ma per spingersi oltre.
Così, adesso, ci troviamo a chiederci se è possibile ripensare radicalmente il modo stesso di fare laboratorio: intrecciando di più i differenti percorsi di formazione come di visione; riconfigurando i propri esercizi di training in un’ottica espansa, anche ibrida; accogliendo ancora di più il teatro nel nostro lavoro e prevedendo un corpo critico davvero presente nei processi di lavoro del teatro, fermo e delicato al tempo stesso, sempre in ascolto e disposto a mutare insieme alle arti della scena e al mondo intorno.
Per queste immagini inattese di futuri possibili, dobbiamo ringraziare soprattutto Anna Battistella, Matilde Sofia Callegari, Rossella Cutaia, Giulia Pellin Mattiocco, Elisabeth Sassi, che hanno accolto l’invito a prendere parte a un percorso di ricerca e formazione in molti sensi “sovraesteso”, che si è nutrito di scritture, esercizi di pensiero, visioni di spettacoli, relazioni concettuali e concrete che hanno sempre cercato di prendere avvio – come nel discorso di Ursina Lardi – nell’hic et nunc del teatro e di un mondo che si sta scoprendo in fiamme.
In questi giorni abbiamo visto che – anche e soprattutto quando il confronto s’inasprisce – il mestiere solitario del critico, indurito dalle prassi e spesso venato da conflittualità più o meno serie, perciò sempre a rischio d’estinzione, può mutare forma in modi impensati, trasfigurandosi in una azione di cura individuale e collettiva dell’ambiente che attraversa; e fare critica può trasformarsi anche nel tentativo di restituire questo prendersi cura, non solo raccontandolo. Si traccia così una traiettoria forse utopica ma che sta diventando molto concreta, che si manifesta come essenziale e che, in teatro, è per forza di cose collettiva – non potrebbe essere altrimenti.
Avere questo spazio, questo tempo, queste risorse – all’interno di una istituzione pubblica come Biennale e in una città particolare come Venezia – per provare a ripensare insieme il teatro, la critica, la società, il nostro modo di prendervi parte (e, non da ultimo, anche noi stessi) è un privilegio di cui siamo gratissimi. Così come siamo grate di aver potuto incontrare molte persone disponibili a condividere con noi simili desideri, rischi ed esercizi – diciamo – di scrittura in senso ampio, forse “per l’anima”. Magari proprio di questo c’è bisogno dentro e fuori il teatro, come ha detto Princess Isatu Hassan Bangura durante il talk con il pubblico, nonché mostrato nella drammaturgia delle energie portata in scena nei suoi lavori in programma.
Del nostro laboratorio di critica sovraesteso, allargato e sottile, ancora in espansione, resta in parte traccia nei materiali pubblicati su questa pagina web; ma se saremo veramente riusciti a restituire il senso e i modi di questo percorso o quantomeno gli orizzonti in cui si è mosso – non solo entro la cornice dei testi – si vedrà con maggior nitidezza, forse, alla Biennale Teatro 2075.
Concludere un’esperienza di ricerca condivisa in quest’ottica – che parte da molto prima di noi e ci trascende, che nel suo farsi si apre a partecipazioni molteplici e, così, sta imprevedibilmente continuando ad ampliarsi, cambiare, mutare – non è semplice e forse è impossibile; anzi sarebbe addirittura ingiusto o quantomeno sbagliato nel senso letterale del termine. Proviamo a farlo con questa chiusura, fidandoci dell’idea che possa custodire nuove, diverse aperture: in grado di condurre molto al di là, non solo rispetto a ciò che la critica è ed è stata, ma anche e soprattutto ben oltre quello che siamo riuscite a immaginare finora.
E per finire, o – meglio, come suggeriva Leo de Berardinis più di quarant’anni fa – per “ricominciare e cominciare”: Daniela Pes - CARME