fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 1: Primi passi nel Blue
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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 1: Primi passi nel Blue

Un laboratorio di critica. Che senso ha? E tanto più in questa confusa, lenta, dolorosa uscita dal lockdown pandemico? I teatri riaprono – non tutti – e La Biennale orgogliosamente si dispiega ad ospitare dieci giorni di creazioni, ricerca, studio, incontri, workshop.
Qui, in questo laboratorio, parliamo di critica: o forse di “pensiero critico”. Attivare la critica come sistematico processore della riflessione, di ogni riflessione, implica uno sforzo per assecondare una attitudine non consolatoria, non semplicistica. E guardare al teatro come luogo di incontro, di dialogo – quel che è sempre stato, no? – vuol dire provare a contribuire a ciò che il sociologo Edgar Morin chiama “dialogica”. Lo riassumo malamente: la cultura favorisce il dialogo, e il dialogo favorisce la cultura. Ecco qui, forse, uno spunto per un teatro in divenire. Per ritrovare nella pratica del teatro, del pensiero, dell’incontro il senso e il modo del vivere assieme. Negli spazi dell’Archivio Storico della Biennale, con migliaia di libri che osservano il nostro fare e il nostro scrivere, proviamo assieme a un manipolo di giovani redattori e redattrici ad attivare discorsi, a essere dialettici e dialogici.
Cinque articoli per cominciare dei nostri giovani laboratoristi: qui di seguito, cinque piccoli passi alla scoperta dei protagonisti della Biennale Teatro 2021. Seguendo le suggestioni di Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte) ci addentriamo nelle proposte iniziali del programma. Ieri sera si è alzato il sipario sul teatro del Leone d’Oro Krzysztof Warlikowski. Il 49. Festival Internazionale del Teatro ha inizio e noi, qui, proveremo a raccontarlo.

Il progetto Biennale College Teatro è una componente essenziale del Festival Internazionale del Teatro, ormai giunto alla sua 49. edizione. Il suo nodo centrale non è costituito solo dagli spettacoli di artisti affermati e di grande rilievo nazionale e internazionale, ma anche dalla scoperta e dalla ricerca di nuovi talenti. L’obiettivo è infatti proprio quello di stimolare continuamente la scena teatrale contemporanea, soprattutto a partire dalle nuove generazioni.

I Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte) hanno inserito nell’edizione di quest’anno un’innovazione significativa: oltre ai bandi rivolti a registi e ad autori italiani giovani per la prima volta ne è stato aperto anche uno internazionale per performer under 40, incentrato sul rapporto con gli spazi esterni, nello specifico con la realtà veneziana.
I vincitori sono Stellario Di Blasi e il collettivo -ness (Rooy Charlie Lana e Giulia Zulian) e presenteranno le loro performance alla Biennale Teatro dal 6 al 9 luglio.
Tramite gli altri due bandi verranno selezionati un regista vincitore di un premio di produzione e due autori che potranno presentare il loro lavoro drammaturgico in forma di lettura scenica nella prossima edizione della Biennale Teatro.

Una sezione fondamentale della Biennale College è costituita dalle masterclass, sede di confronto e sperimentazione sul teatro di oggi. Insieme agli artisti in scena sono stati chiamati altri drammaturghi, registi, attori e specialisti come Maestri per il ciclo di otto laboratori che coprono l’intera durata del Festival.
La sollecitazione dei giovani partecipanti selezionati per i workshop è l’obiettivo centrale delle attività programmate. Lo stimolo offerto dai Maestri si concretizza attraverso il ritorno alla dimensione del rito, persa inevitabilmente durante questo periodo di sospensione: la rappresentazione teatrale in quanto tale è necessariamente “dal vivo”, non a caso infatti l’etimologia del termine “teatro” indica il luogo da cui si guarda, richiamando così l’importanza fondamentale della presenza fisica di una comunità interpretante capace di osservare e di riflettere su ciò che avviene in scena.
Gli artisti e i professionisti che tengono gli incontri sono: Monica Capuani per la traduzione teatrale, Martin Crimp per la drammaturgia, Chiara Guidi e Galatea Ranzi per attori/performer, Leo Muscato con Nicole Kehrberger e il maestro Riccardo Frizza per cantanti lirici, Danio Manfredini sul corpo poetico, Krzysztof Warlikowski per registi/drammaturghi, Adrienn Hód per attori/performer, Andrea Porcheddu per la critica teatrale.
Le masterclass, insieme alle tavole rotonde, affiancano il programma degli spettacoli in scena al Festival e sono un elemento necessario per la creazione di un collante capace di istituire un contatto tra professionisti e giovani artisti, creando un dialogo e una riflessione sempre viva sul teatro contemporaneo.

La Biennale Teatro quest’anno si tinge di blu.
I Direttori Artistici del Festival, ricci/forte, hanno dato a questa sfumatura un significato che va oltre il semplice colore: le parole di Stefano Ricci, infatti, riprendono una citazione di Jack Kerouac che parla del blu come di una domanda da porsi e di un moto di riscoperta. Ricci invita a “trasformare l’inatteso in una sfida cercando di sviluppare la propria intraprendenza”. Ma blu è anche la volta celeste che unisce tutti e connette tutte le arti sotto lo stesso “tetto”.
Il programma di questi dieci giorni vede susseguirsi undici spettacoli che percorreranno il sottile filo blu di questa edizione. La prima parte del programma si apre con We Are Leaving di Krzysztof Warlikowski (Leone d’Oro alla carriera 2021). Il palco si presenta come una sala d’attesa che tutti vogliono abbandonare, ma per andare dove? Il blu in questo caso è un blu malinconico, scuro, che non fa vedere la strada da percorrere ma lascia il desiderio di voler andare altrove.
Il blu di Danio Manfredini, attore e regista più volte Premio Ubu, è dato dai suoi dipinti proiettati come fondale durante lo spettacolo e dalla musica di Francesco Pini. Nel lago del cor, in scena il 4 luglio alle 21 al Teatro Piccolo Arsenale, ripercorre attraverso un flashback la vita di un internato in un campo di concentramento. A questo proposito Manfredini afferma: “Posso dire che il blue nel periodo della pandemia ha significato per me soprattutto il colore delle strisce dei deportati ad Auschwitz”. Il titolo è preso dal primo canto dell’Inferno di Dante e si riferisce al blu della notte, dell’angoscia che stagna nel cuore: “Allor fu la paura un poco queta,/che nel lago del cor m’era durata/ la notte ch’i’ passai con tanta pieta”.
Un altro tipo di blu compare nella compagnia Agrupación Señor Serrano, che identifica il colore con una forma di daltonismo. Ed è proprio il blu l’unica sfumatura che tutti sono in grado di vedere nello stesso modo, blu che rappresenta comunione ed unità in un “consenso condiviso” del gruppo catalano. Alla Biennale Teatro presenta The Mountain, uno spettacolo con una trama stratificata che vuole porre dei dubbi su cosa sia vero e cosa no: di chi ci fidiamo? Perché crediamo in una notizia? Per rispondere a ogni dubbio bisogna andare lunedì 5 luglio alle 21.00 all’Arsenale, Teatro alle Tese (III), dove la compagnia sarà in scena.
Quale sarà il blu degli altri artisti? Gli spettacoli di Roberto Latini, Paolo Costantini, Lenz Fondazione, Proton Theatre e molti altri saranno sul palco nei prossimi giorni di questo Festival in blu.

Ogni anno, precisamente dal 27 marzo 1962, manifestazioni sparse in tutto il mondo celebrano la Giornata Mondiale del Teatro organizzata dall’International Theatre Institute – una delle più importanti organizzazioni non governative nel campo delle arti performative. Per l’occasione, l’attenzione generale è rivolta al messaggio che una specifica personalità del settore è invitata a trasmettere alla comunità dei professionisti della scena e degli spettatori.
Nel 2015, è Krzysztof Warlikowski a condividere alcune riflessioni sulla propria poetica, inserendosi in una schiera di artisti che comprende nomi come quelli di Jean Cocteau, Luchino Visconti, Eugène Ionesco e Judi Dench. Nel suo breve intervento, Warlikowski fa riferimento a Franz Kafka, Thomas Mann, Marcel Proust, scrittori della prima parte del Novecento di cui egli ha variamente interpolato i romanzi in drammaturgie che ne riuniscono citazioni e riferimenti, collegandole a ulteriori testi. A suo dire, questi autori sono stati capaci di avvertire e catturare anzitempo il declino di un certo tipo di relazioni sociali e di civiltà: per noi che viviamo oltre la catastrofe, immersi nel buio dell’incomprensione, dell’equivoco e dell’impotenza, tornare a maneggiare le loro opere ci permette di indagare zone della realtà poco frequentate, o addirittura proibite. Da questo punto di vista, il teatro si configura come un dispositivo di immaginazione che materializza non una spiegazione dell’esistente, una sua chiave di lettura o un messaggio d’azione, ma un nuovo mondo in tutta la sua complessità. “La leggenda cerca di spiegare ciò che non può essere spiegato. Poiché è radicato nella verità, deve finire nell’inspiegabile”: la frase di Kafka con cui si chiude l’intervento di Warlikowski contiene l’essenza fondamentale del suo agire artistico.
Alla luce di questo, il Leone d’Oro alla carriera che gli viene conferito quest’anno acquista un valore che va al di là dell’indiscutibile rinnovamento linguistico riconosciuto nella menzione del premio. Piuttosto, esso si ritrova in quelle che Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte), Direttori della Biennale Teatro, definiscono “brecce poetiche”, capaci di risvegliare nello spettatore quella potenza immaginativa che la pandemia in corso e le misure per farvi fronte hanno così duramente frustrato.

We Are Leaving del Leone d’Oro 2021 Krzysztof Warlikowski è uno spettacolo dominato da spinte propulsive dissonanti, come la forza che permette a due magneti di carica opposta di rimanere distanti, seppur ciò che li separa sia invisibile.

Il critico letterario Franco Moretti, nel suo celebre saggio Opere Mondo spiega che a questo concetto, da lui teorizzato, “appartengono le opere culturalmente impure, transnazionali, senza più alcun senso del ‘nemico’, iperistruite, indulgenti verso il consumo, innamorate delle bizzarrie e degli esperimenti”. Seppur questa messa in scena epico-contemporanea sembri rientrare perfettamente nella categoria, al contempo non si possono ignorare le parole del regista in un’intervista con George Banu, uno dei più celebri storici del teatro francesi, in cui afferma che le drammaturgie di Hanoch Levin, autore del testo in scena, impediscono al pensiero di volare alto.

Come si uniscono dunque queste due istanze, all’apparenza, discordi fra loro? Ciò che si vede in scena diventa un tentativo convincente di rispondere alla domanda. L’allestimento di Warlikowski non rinuncia all’assurdo, ma lo incasella in una prospettiva volutamente orientata, che non lascia vie di fuga alla coerenza interna. 

Ventuno attori si muovono sul palcoscenico, seguendo dei binari invisibili, fili nascosti attraverso i quali creano dei tableaux vivants scomposti e decadenti, scanditi da una musicalità che unisce sonorità pop a volumi assordanti, che all’occorrenza si trasformano in nenie funeree. I personaggi, abbigliati con una accecante e dissonante palette di colori vivaci, raccontano l’epopea discendente della comunità protagonista della vicenda. Ogni carattere trova il suo spazio di narrazione, grazie anche all’abilità autoriale degli attori in scena. Il corpo disegna una traiettoria drammaturgica attraverso la quale diventa cassa di risonanza per una vocalità straniante e attraente.

È un universo crudele quello creato da Warlikowski, in cui sfacciatamente i figli subiscono l’irrisolutezza dei padri, diventando creature amorfe, l’ossessione della generazione anziana sembra essere quella di liberare i discendenti dal rischio di una vita infelice, annichilendoli, come sarà per l’americana Angela, che con il suo selfie stick in mano racconta di come i genitori gli abbiano negato la memoria delle sue origini.

Finalmente si torna alla tanto agognata pluralità in scena, lungi però dal trasformarla in una scelta programmatica: ciò che infatti si cerca di restituire è ben altro. I protagonisti della storia attraverso le loro amare vicende, diverse ma accomunate da un triste epilogo, raccontano il medesimo meccanismo: il desiderio violento di fuga destinato a finire in fallimento o a riuscire all’interno di una cassa da morto. Il mondo esterno – la “Svizzeria”, Londra, o gli Stati Uniti –, cercato dagli abitanti di questo angusto microcosmo, non ha connotati definiti, diventa un repertorio di immagini vuote e confuse, enucleate da un’attrice, volutamente camuffata da bambola gonfiabile, nella conclusione dello spettacolo.

L’elefante nella stanza è la morte, le bare lontane sono coperte da una serra vetrata sul fondo del palcoscenico, in cui ciclicamente i personaggi entrano per celebrare i numerosi riti funebri che costellano la storia. Progressivamente il rito cambia, le foto-santini dei defunti diventano sempre più ridicole, il coinvolgimento della comunità ogni volta minore: non c’è più nessuno che pianga i morti. I funerali inscenati, sono, se non annunciati, facilmente prevedibili, i moribondi inoltre si inseriscono perfettamente in una parabola discendente che li vede nel punto di massimo degrado al momento della fine, rendendo sempre più difficile ai sopravvissuti necrologi lusinghieri.

Si potrebbe, in questo senso, leggere l’allestimento come un lento, ma inesorabile processo di liberazione dal conformismo legato all’universo familiare-rituale dei piccoli nuclei, parentali e non, che costellano la scena. Non solo i caratteri sono inetti, scorretti, a tratti tendenti al disgustoso, ma non ne sono consapevoli; tutti combattono contro i loro mulini a vento, banalizzando l’epopea altrui.

L’onirica esperienza di tornare in platea, attraverso la regia di Warlikowski, si trasforma in un’apnea lunga 210 minuti, da cui non si vuole fuggire. Lo specchio del teatro diventa crudele e assuefante al contempo, senza rinunciare alla bellezza di un apparato scenico curato e immaginifico, in cui una divinità di dubbia etnia, avvolta da un’edenica generazione, veglia sul putrido, ma variopinto creato sottostante.

Paolo Costantini partecipa alla 49a edizione della Biennale Teatro. Su di lui si trovano ben poche notizie sul web, forse perché il giovane regista è spesso impegnato sui palchi di Italia e Germania e preferisce rimanere ‘defilato’. Contattato telefonicamente durante la pausa di una sessione di prove, Costantini ha fornito alcune informazioni sul suo percorso e sul suo nuovo lavoro.

Nato a Roma e diplomato in regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ‘Silvio D’amico’, grazie all’Erasmus con l’associazione Fabulamundi, il regista si trasferisce a Berlino collaborando con l’Interkulturelles Theater Zentrum e con la compagnia italo-tedesca Barletti/Waas. Dopo essere stato assistente alla regia prima di Antonio Latella, per La valle dell’Eden, e poi del Leone d’Oro Franco Visioli, per Ultima Latet, la sua attività artistica lo porta a vincere la Biennale College Registi under 30 del 2020 con il progetto Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda, in scena sabato 3 luglio alle 21 e domenica 4 alle 18 alle Tese dei Soppalchi.

Lo spettacolo, ispirato da Oggi avrei preferito non incontrarmi del Premio Nobel per la letteratura Herta Müller, è costruito sui corpi di due attrici-performer, Evelina Rosselli e Rebecca Sisti, scelte da Costantini per una pièce che si articola su una struttura sensoriale piuttosto che logica-lineare. Assieme alla drammaturga Linda Dalisi, Costantini, come racconta al telefono, ha scritto un copione in continuo divenire, metamorfizzato in base allo spazio scenico, alle proposte e alle interazioni tra le due attrici.

Nell’opera della Müller si legge di una donna senza nome, che, chiamata ‘a rapporto’ dal regime dittatoriale di Ceaușescu, riflette durante il tragitto in tram su ciò che è stata la sua vita; l’angoscia della protagonista del libro è scatenata dalla ‘convocazione’, che diventa metro della sua esistenza, del suo tempo e della sua aspettativa di felicità. Nello spettacolo di Costantini, l’inquietudine è invece data dalla frenesia di un tempo sclerotizzato, continuamente riempito da un agire che storna l’horror vacui, ma che non porta a nulla. Nella spasmodica ricerca di cose e azioni per una malsana auto-accettazione, il silenzio fa paura più che mai; si preferisce riempirlo di rumore inutile piuttosto che lasciarlo parlare.

Fra le tante domande che lo spettacolo pone, Costantini ne individua una particolarmente significativa: “come ci rapportiamo agli oggetti della quotidianità che diventano parte del nostro vivere?”, oggetti che si trasformano, secondo la nostra percezione, in ricordi, nostalgia. Le ondate pandemiche, racconta il regista, hanno acuito la tendenza al vano riempimento del tempo e alla produzione del superfluo. Anche il rapporto con l’altro è diventato più complesso, permeato di titubanza e diffidenza crescente, a tal punto che Costantini dichiara, in modo tristemente programmatico: “ormai non è più semplice andare verso l’altro e basta”.

Nello spettacolo del regista romano la ‘convocazione’ della Müller si trasforma in quella che ognuno si crea. La smania del fare alla ricerca costante della felicità (la ‘pretesa’, come da titolo) diventa la nuova dittatura autoimposta, contro la quale sembra molto difficile organizzare una rivoluzione.

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