fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 5
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 5

Questa Biennale Teatro, in tutta la sua pluralità, pare spingerci in maniera decisa a ri-sondare quella funzione antica del teatro – ma forse mai così “nuova” come in questi ultimi mesi – che ha a che fare con l’incontro con l’alterità. Ma non solo nel contatto, sempre sorprendente, che si sprigiona fra scena e platea.
Proviamo oggi a perlustrare da punti di vista diversi queste zone liminali, da cui possono scaturire contaminazioni, slanci e innovazioni: dal confronto fra discipline così lontane così vicine come la prosa e la lirica; al rapporto fra teatro e storia, uno dei fil rouge del Festival e della scena contemporanea; passando per le “apparizioni” che si possono manifestare in un workshop di drammaturgia del College…

Le relazioni tra i vari campi artistici sono spesso caratterizzate da “un amore (non sempre) corrisposto”, per citare un libro curato da Oliviero Ponte di Pino su teatro e cinema. Capita spesso che quando realtà diverse con percorsi dissimili si trovano a coesistere possano nascere contrasti dove il lieto fine non è garantito, anzi. Il luogo di coabitazione di molte entità artistiche per eccellenza è l’opera lirica, spazio in cui discipline e professionalità eterogenee entrano in relazione ed eventualmente in dialettica.

Nel panorama operistico sono il regista e il direttore d’orchestra a contendersi, almeno nell’opinione comune, il ruolo di artefice, sconfinando spesso dal proprio settore. Ed è proprio questa difficile relazione il tema della tavola rotonda Teatro di regia nella lirica, voce ed interpretazione. Qui, a rappresentare le due professionalità sono Leo Muscato, che ha messo in scena una ventina di opere, e il direttore Riccardo Frizza. Assieme a loro, intervengono il sovrintendente del Teatro La Fenice di Venezia, Fortunato Ortombina, e i critici musicali Alessandro Cammarano e Alberto Mattioli.

Nonostante ci fossero buone premesse, non sono nate polemiche tra direttore e regista: anzi, le loro parole sembrano corrispondersi e completarsi come tasselli di un puzzle. “Sono alla ventesima opera e non ho avuto alcuno screzio con un direttore d’orchestra”, dice Muscato; e poi aggiunge: “quando sono in fase di studio mi confronto direttamente con lui chiedendo informazioni sulla musica”. Per Frizza “il teatro deve essere esplorato”; e rilancia “io amo la sperimentazione”, ma poi precisa: “la musica è intoccabile. Se qualcosa non va con il compositore sono sempre disponibile, purché la musica non venga toccata”.

Con i critici la conversazione prende una piega più informale, anche se ricchissima di contenuti. Uno spunto fra i più interessanti è la lettera in cui Verdi anticipa per l’opera moderna i ruoli del regista e del direttore d’orchestra (all’epoca del compositore l’ensemble era controllato dal primo violino); questo a prova della consapevolezza estrema e della preveggenza che aveva come “uomo di teatro”, perché è così che amava definirsi. Il mondo della lirica è anche pieno di aneddoti che si sono succeduti di relatore in relatore arricchendo di immagini tutti i discorsi. Merita di essere citato il caso del cantante francese Dupré, un tenore che aveva suscitato l’interesse delle gazzette milanesi per l’effetto erotizzante avuto sulle spettatrici grazie ai suoi piedi particolarmente piccoli, all’epoca ritenuti segno di grande bellezza.

Luca Ronconi, regista italiano con 85 opere allestite, nel libro Prove di autobiografia sostiene che la differenza tra il pubblico di prosa e quello lirico sia la memoria: se lo spettatore drammatico pare aperto al nuovo e senza tradizione, quello operistico è “orgoglioso della sua, tanto da giudicare mai secondo gusto, ma con competenza e alla luce di una memoria storica che è conservata e tramandata”. Insomma, l’artista sottintende una certa intransigenza da parte dei melomani davanti a trasposizioni o radicalizzazioni registiche, argomento emerge anche nel convegno. Ecco perché il sovrintendente Ortombina auspica che la nuova generazione di spettatori e cantanti, presente in sala durante l’incontro, “possa essere quella del vero cambio dell’opera”.

Un tema delicato, introdotto dalla domanda di un giovane cantante tra il pubblico, è quello della scelta del cast vocale nelle produzioni in cui i canoni estetici prevalgono sul talento. Quando entrano in campo dinamiche economiche – secondo cui per esempio è più importante dare al personaggio un bel corpo magari a scapito di una voce adeguata – nessuna risposta riesce del tutto convincente. Quasi dovessero prendere atto, con imbarazzo, di una prassi spiacevole e inevitabile dovuta alle necessità dello sbigliettamento. Sintomo che alcuni cambiamenti di natura politico-economica nel mondo – non solo – della lirica andrebbero provati a prescindere, focalizzandosi di meno su come il regista scelga di vestire Don Giovanni.

Durante il workshop tenuto in questi giorni dalla giornalista, traduttrice, promotrice teatrale, Monica Capuani, in una fresca sala di Ca’ Giustinian, è successa una cosa strana.
Ero assieme al gruppo dei giovani artisti del laboratorio, come una spia dalle buone intenzioni, ad ascoltare la lezione sull’Ecuba di Marina Carr, celebre autrice irlandese che ha riscritto le Troiane di Euripide. La docente, con un linguaggio cristallino, raccontava di Ecuba, la regina troiana madre di Ettore, Paride, Cassandra, spodestata e schiavizzata, che, nella scena analizzata, era al cospetto del re Agamennone, vincitore rozzo e dispotico della guerra di Troia. Mentre ci faceva riflettere sull’uso dei termini e dei verbi da lei tradotti dall’inglese all’italiano, d’un tratto, è apparso il fantasma di Ecuba.
Nessuno ne è parso particolarmente stupito: la Biennale Teatro è un luogo in cui qualche spirito deve pur apparire ogni tanto.

Ecuba ci ha squadrato, uno a uno, poi ha guardato Capuani. Solo dopo un cenno del capo di quest’ultima, la donna di Ilio ha preso parola:
-Monica, tu oggi qui ti stai facendo portavoce di un messaggio che tutti noi, eroine ed eroi del mito, da sempre imploriamo: perché siamo costretti a essere tradotti come fossimo delle reliquie museali della lingua italiana? Perché metterci in bocca parole altisonanti, arcaiche, a noi che dei nostri difetti e debolezze non abbiamo mai fatto segreto con nessuno? Le nostre storie venivano cantate ai banchetti, o messe in scena di fronte alla comunità greca. Il nostro pubblico era la gente, dovrebbe essere ancora la gente! Ma chi può pensare che un conciatore di pelli di Atene mi avrebbe mai capito se nel testo avessi usato termini come “vermiglio”, “abbacinante”, “rimembrare”? No. Avrebbe preferito andare in guerra contro Sparta piuttosto che sorbirsi ore e ore di drammi alle Grandi Dionisie. Oppure sarebbe andato a teatro, ma per addormentarsi lentamente, sedotto da Morfeo, in quel turbinio di parole complesse. Io posso capire che un “peana” sia un “peana”, che le “Erinni” siano le “Erinni”, ma ti assicuro che noi, con le nostre disgrazie e le nostre colpe, vogliamo una sola cosa: che si racconti il mito a quante più persone possibili.
“La società non può funzionare se le donne sono infelici”, mi ha fatto giustamente dire Marina Carr, ma anche la tragedia non può funzionare se le parole sono incomprensibili ai più. Come può avvenire la catarsi se, mentre io mi struggo per la morte dei miei figli, lo spettatore scorre la pagina di un dizionario per cercare di capire cosa io stia declamando?
Trasporre il mito con un linguaggio che sia diretto, benché non sciatto, crudo eppure “vivente”: forse è questa la strada giusta. Una volta scelto di rendere fruibile la tragedia con parole chiare, poi è più bello trovare la musicalità, giocare con le metafore. Quanti al giorno d’oggi si perdono i nostri racconti, quanti diventano ostili, sordi alle nostre vicende. Si ammalano di “mitotite”, il mal d’orecchio che viene a chi ascolta storie mitologiche narrate come fossero una battaglia di Scarabeo fra decani della Normale di Pisa.
“Rosso” al posto di “vermiglio” non toglie nulla al sangue delle ferite, “rimembrare” non è più efficace di ‘“ricordare”. Le parole sono importanti, lo so, quelle difficili sono pure belle, ma non per noi, verso cui c’è già un grande pregiudizio. Il fatto che si conosca il mito, la nostra storia, le nostre radici, solo se costretti, solo se dall’alto di un muro di libri impolverati, questo mi terrorizza, più della schiavitù. Vi lascio a Marina Carr, buon proseguimento!-

Lo spirito, così come è venuto, è sparito di nuovo.
E questo era il resoconto di un breve momento del workshop sulle drammaturgie contemporanee di lingua inglese tenuto da Monica Capuani.

Fare il punto della situazione teatrale è una delle funzioni della Biennale Teatro, e l’edizione presente non fa eccezione: percorrendo il suo programma è possibile rilevare tendenze capaci di mostrarci quello che è il teatro di oggi e forse anche di domani.
Brandendo animatamente un selfie-stick, il personaggio di Angela irrompe sulla scena di We Are Leaving di Krzysztof Warlikowski. È una giovane turista americana in cerca di chissà quali avventure in una minuscola cittadina israeliana, che – da vlogger – costruisce in diretta la narrazione del suo viaggio. Lo schermo che campeggia sul palco ospita il flusso delle immagini che la ritraggono, un racconto integralmente concentrato su di lei. Ma la sua superficialità, a un tratto, è intaccata da una rivelazione: non si tratta soltanto di una bionda vitaminica a spasso per il Medio Oriente, ma una discendente di ebrei sopravvissuti alla Shoah che intende finalmente scoprire le sue radici. Il resoconto torrenziale a consumo dei seguaci digitali diventa lo spazio per una ricerca memoriale e identitaria, una ricostruzione storica “a uso” personale.

In spazi e modi piuttosto distanti da quelli del regista polacco, anche Danio Manfredini si confronta con il passato. Si muove sulla scena indossando la casacca a righe dei prigionieri dei lager, pronuncia le parole di Hannah Arendt e Primo Levi, evoca i lavori forzati ad Auschwitz, la rivolta di Treblinka, le marce della morte verso la Germania… Tuttavia, se Nel lago del cor è uno spettacolo fondato sulla memoria dell’olocausto, quest’ultima è declinata in chiave del tutto soggettiva. L’intera messinscena è circondata dai disegni dell’artista e si trova, così, racchiusa all’interno di un universo intimo. Manfredini non vuole raccontare una storia, ma prenderne possesso attraverso un’immedesimazione “in differita”: il suo corpo accoglie diverse voci di sofferenza, ma grazie a certi elementi teatrali ricorrenti nel suo teatro – la maschera, le movenze interrotte – ribadisce la propria identità e, attraverso la Shoah, esprime una sofferenza quasi esclusivamente interiore.

Nel delineare un rapporto con la Storia, Agrupación Señor Serrano si serve soprattutto di materiali d’archivio, da cui preleva elementi pronti per essere mixati. “Siamo scalatori”, affermano in The Mountain, “e scaleremo le nostre montagne assieme, ogni volta che sarà necessario”; “lo faremo”, puntualizzano, “per vedere ciò che nessuno ha visto mai”, cioè “per percepire”, così, “la verità ultima”.
Queste parole chiudono l’ultima lettera che, l’11 giugno 1924, Ruth Turner inviò al marito, George Mallory, forse il primo a raggiungere la cima del monte Everest. La sua scomparsa e altre occorrenze determinano ancora oggi l’impossibilità di conoscere se sia riuscito o meno nell’impresa. Il fatto che, nello spettacolo, la vicenda sia accostata alla Guerra dei mondi di Orson Welles e alla gestione delle informazioni nella Russia di Vladimir Putin permette di leggerla secondo la categoria della post-verità. Sotto questa lente, la compagnia catalana mette in discussione le tre narrazioni, le motteggia, apparentemente affermando uno smarrimento definitivo. Tuttavia, le parole di Ruth suggeriscono una posizione lontana da una radicale, e un po’ datata, decostruzione delle “grandi narrazioni”; e riaffermano un desiderio minuto, ma volitivo, di ricercare la verità, ossia di costruire la Storia.

In tutti e tre i casi la sfiducia postmoderna verso il recupero di un senso a partire dagli eventi del passato pare venir meno. Se non più è possibile affidare ai sistemi politici, sociali e filosofici il compito di un’elaborazione della Storia, una soluzione può venire forse dallo scavo della prospettiva personale: come la ricerca di Angela e della compagnia di Warlikowski, quella di Manfredini, quella di Agrupación, inseguendo la “scalata” di Mallory e di sua moglie.

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