fbpx Archivio Storico | Il Carnevale squarcia la nebbia - 1980
La Biennale di Venezia

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Venezia, Scaparro, La Biennale 1980, 1981, 1982, 2006 dall’Archivio Storico della Biennale di Venezia

Il Carnevale squarcia la nebbia

1980

Carnevale del Teatro

Mi vado chiedendo da qualche tempo quale senso può avere oggi il nostro mestiere, il nostro fare teatro voglio dire, in una società dove il contatto umano sembra rarefarsi, e dove l'artigianato lotta per non soccombere; quali sono i limiti, quali i valori, quali le speranze che questo mestiere si porta appresso. È vero che il pubblico, e spesso pubblico nuovo, va riscoprendo il teatro, ma non necessariamente questo significa vitalità creativa di questa forma di spettacolo; può voler dire per esempio curiosità per un accampamento di pellirossa che si ostina a comunicare con la bocca e con le mani quello che si trasmette con ben altra velocità divulgativa attraverso altri mezzi di comunicazione; o può voler dire invece bisogno autentico di rapporti non mediati dalla tecnica, scoperta dell'intelligenza, della fantasia, della fatica dell’uomo. In altre parole, e in ogni caso va cambiando il pubblico (perché la storia cambia), e il teatro sembra invece restare lì (perché le sue storie non cambiano) con i suoi ambigui affascinanti giochi magici, con l'illusione grande, che è comunque la sua forza, di essere specchio dei tempi anche quando i tempi non si specchiano più in lui.
La immutabilità del teatro (non del suo rappresentarsi naturalmente) può diventare tuttavia quasi una piccola rivoluzione copernicana, perché con sicura lentezza cambiano soggetti e oggetti, cause ed effetti.
Il pubblico diventa (anche inconsapevolmente) attore, si impossessa del teatro, ne fa oggetto di riflessione, studio, ricerca, sogno, ironia, rimpianto; e può anche restituirlo alla storia con nuove ragioni per esistere e, forse, per cambiare.
Provocare, anche in un tempo breve e in uno spazio limitato, uno scambio di ruoli e una confusione di linguaggi, interrogare chi fa il teatro e chi lo frequenta sulle nostre sorti future di clown, mi sembrava urgente, e forse necessario.
Il Carnevale del Teatro è nato così.
Il pubblico, gli attori e, perché no, il caso hanno fatto il resto, testimoniato anche dalle immagini di questo libro.
Ma non c'è caso che tenga se nel nostro lavoro non credi e non speri nel pubblico e negli attori. Assieme a loro abbiamo buttato in piazza, senza segnalarli con voti di qualità, tutti gli ingredienti che nei secoli hanno fatto teatro e hanno fatto carnevale: il trucco, il travestimento, la maschera, il gesto, la musica, la parola.
Ci ha certo aiutato la consapevolezza di vivere in un tempo che non è di festa, il che semmai è stata una ragione in più per interrogarci sulla utilità anche politica del lavoro teatrale oggi. Il periodo del Carnevale era stato del resto scelto anche perché interruzione delle istituzioni, rottura delle regole, pausa possibile e libera di riflessione e di ricerca. Venezia era già pronta a darci una mano, come se aspettasse solo l'occasione; e del resto la stessa amministrazione comunale da almeno due anni stimolava i veneziani a riappropriarsi di una tradizione popolare nascosta ma mai dimenticata; così l’uso teatrale del carnevale ha trovato la sorpresa ma aperta disponibilità dei veneziani e dei «foresti», e l’incontro con i «comici» è stato pieno, gioioso, spesso emozionante per riscoperte reciproche. Abbiamo aperto per una settimana, giorno e notte, tutti i teatri grandi e piccoli di Venezia, perché il Carnevale potesse passare senza soluzione di continuità dalla piazza all’edificio teatrale, al campiello, all'acqua dei canali. E in più abbiamo aperto anche un nuovo piccolo spazio teatrale sull’acqua, il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, che riecheggia non soltanto le costruzioni galleggianti dello Scamozzi e del Rusconi, ma anche la purezza delle linee del Globe. Ricordo qui l'utilizzazione di quel teatro, anche se marginale rispetto a quanto avveniva contemporaneamente nelle piazze e nei teatri, per sottolinearne la sua singolare bivalenza, la sua vita interna ed esterna, la sua possibilità di essere usato e vissuto sia come contenitore di spettacoli sia come attore egli stesso. Questo, ed altro ancora, molto di più di quanto parole e immagini non possano dire, è accaduto per caso a Venezia, nel 1980.
ln fondo abbiamo unito tre parole usate, e usate al limite del luogo comune, come Carnevale, Teatro, Venezia, perché collegate assieme potessero assumere un valore originale, un senso e un significato diversi, indicazione di una esperienza irripetibile altrove, ma anche a Venezia legata a tempi precisi di ricerca e di studio, paralleli alla festa, ma certamente da essa distaccati e autonomi.

 

Maurizio Scaparro

Teatro del Mondo

Ideare questo Teatro del Mondo, effimero o meno che lo si voglia considerare, comportava una necessaria conoscenza/passione per il teatro, le sue funzioni, la sua stessa storia e Aldo Rossi è tra i non molti architetti che ama e frequenta il teatro.
Rossi si è così accostato a questo progetto con la volontà di «cercare solo nel reale la fantasia» superando l’antitesi storica macchina-teatro, cogliendo della macchina non tanto la prevedibile precarietà anche temporale, quanto lo specifico della sua costruzione sull’acqua, e il suo porsi, nell’acqua, a confronto con le realtà immutabili “eterne” di Venezia.
Atto di amore per il futuro della città, o “antiVenezia” il teatro è comunque positiva provocazione, originale progettualità, proposta mutevole, suggestione effimera ma primaria.
Con il passaggio stupefacente fra le nebbie di Marghera, dai cantieri navali di Fusina fino alla Punta della Dogana, nel novembre 1979, ha dato prima ancora della sua utilizzazione ufficiale, grande spettacolo di sé, ha smosso le acque di Venezia troppe volte dimenticate, riportando alla nostra memoria il loro legittimo protagonismo, da decenni degradato a folclore pseudo storico delle regate in costume, ha attivato nuovi stimoli per ipotizzare, pur limitato nello spazio e nel tempo, un diverso teatro.
E del teatro Rossi ha colto la classicità della forma, che riecheggia non tanto gli spazi dello Scamozzi e del Rusconi, quanto quelli del suo teatrino scientifico e ricorda esternamente la purezza del Globe. Così come ha tentato una non facile funzionalità di un palcoscenico, necessariamente ridotto nello spazio, stretto da due gradinate contrapposte, e genialmente proiettato in verticale per quasi venti metri di altezza: quasi una indicazione per possibili originali utilizzazioni di questo spazio teatrale, al di fuori della indiscriminata festosa accoglienza che il Teatro del Mondo ha fatto a gruppi teatrali e musicali italiani e stranieri per il Carnevale del Teatro 1980.
Così come altra indicazione di “tendenza”, che mi è particolarmente cara perché in sintonia con il mio modo di lavorare in palcoscenico, sembra essere quel rifiuto del superfluo del “mondo rigido e di pochi oggetti” che Rossi consegna alla fantasia di chi fa il teatro e di chi lo frequenta.
Fascino singolare del teatro di Rossi è comunque la sua bivalenza, la sua vita interna ed esterna; e più ancora la sua possibilità di essere usato e vissuto sia come contenitore di spettacoli, sia come attore egli stesso, protagonista mobile e mutevole per attracchi diversi, per colori che cambiano con il passare delle ore, per i visitatori che lo animano dentro e fuori, fin sulla terrazza che circonda la cupola, castello vivo sull'acqua che ricorderemo per molto tempo, con qualche nostalgia, quando non ci sarà più, necessariamente usato, riportato con tempi fortunatamente rallentati alla fine “storica” delle macchine veneziane del Cinquecento.
Prima della sua fine naturale, il Teatro del Mondo di Aldo Rossi avrà compiuto però la sua funzione sperimentale che ci eravamo proposti. Sognamo ancora una sua nuova mobilità, per “scoprire” nuove terre non veneziane, per contrapporsi ad altri monumenti “eterni”, confrontarsi con altra gente e altri costumi, presentarsi ed essere quindi in ogni luogo teatro diverso, ma anche arca di Noè o barca dei comici, con i bagagli di speranze e di illusioni, che il teatro nei secoli si trascina appresso. Con questo spirito il Teatro del Mondo inizia il suo viaggio reale e fantastico verso la Jugoslavia.

 

Maurizio Scaparro

Maurizio Scaparro

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