fbpx Biennale Arte 2022 | Dichiarazione di Cecilia Alemani
La Biennale di Venezia

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Dichiarazione di

Cecilia Alemani

Curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte

Il titolo e i temi

La mostra Il latte dei sogni prende il titolo da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011), in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé. È un universo libero e pieno di infinite possibilità, ma è anche l’allegoria di un secolo che impone una pressione intollerabile sull’identità, forzando Carrington a vivere come un’esiliata, rinchiusa in ospedali psichiatrici, perenne oggetto di fascinazione e desiderio ma anche figura di rara forza e mistero, sempre in fuga dalle costrizioni di un’identità fissa e coerente. A chi le chiedesse quando fosse nata, Carrington rispondeva che era stata generata dall’incontro tra sua madre e una macchina, in una bizzarra comunione di umano, animale e meccanico che contraddistingue molte delle sue opere.

L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano.

La mostra nasce dalle numerose conversazioni intercorse con molte artiste e artisti in questi ultimi mesi. Da questi dialoghi sono emerse con insistenza molte domande che evocano non solo questo preciso momento storico in cui la sopravvivenza stessa dell’umanità è minacciata, ma riassumono anche molte altre questioni che hanno dominato le scienze, le arti e i miti del nostro tempo. Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?

Questi sono alcuni degli interrogativi che fanno da guida a questa edizione della Biennale Arte, la cui ricerca si concentra in particolare attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra.

Molte artiste e artisti contemporanei stanno immaginando una condizione postumana, mettendo in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano – in particolare la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio, “uomo della ragione” – come il centro dell’universo e come misura di tutte le cose. Al suo posto, contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse, abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici, come le creature fantastiche inventate da Carrington. Sotto la pressione di tecnologie sempre più invasive, i confini tra corpi e oggetti sono stati completamente trasformati, imponendo profonde mutazioni che ridisegnano nuove forme di soggettività e nuove anatomie.

Oggi il mondo appare drammaticamente diviso tra ottimismo tecnologico – che promette il perfezionamento all’infinito del corpo umano attraverso la scienza – e lo spettro di una totale presa di controllo da parte delle macchine per mezzo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Questa frattura si è acuita ulteriormente con la pandemia da Covid-19, che ha intensificato ulteriormente le distanze sociali e ha intrappolato gran parte delle interazioni umane dietro le superfici di schermi e dispositivi elettronici.

La pressione della tecnologia, l’acutizzarsi di tensioni sociali, lo scoppio della pandemia e la minaccia di incipienti disastri ambientali ci ricordano ogni giorno che, in quanto corpi mortali, non siamo né invincibili né autosufficienti, piuttosto siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche che ci legano gli uni con gli altri, ad altre specie e all’intero pianeta.

In questo clima, sono molte le artiste e gli artisti che ritraggono la fine dell’antropocentrismo, celebrando una nuova comunione con il non-umano, con l’animale e con la Terra, esaltando un senso di affinità fra specie e tra l’organico e l’inorganico, l’animato e l’inanimato. Altri reagiscono alla dissoluzione di presunti sistemi universali riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove politiche identitarie. Altri ancora praticano ciò che la filosofa femminista Silvia Federici descrive come il “re-incantesimo del mondo”, mescolando saperi indigeni e mitologie individuali, in modi non dissimili da quelli immaginati da Leonora Carrington.

La struttura della mostra e le capsule storiche

La mostra Il latte dei sogni si articola negli spazi del Padiglione Centrale ai Giardini e in quelli delle Corderie, delle Artiglierie e negli spazi esterni delle Gaggiandre e del Giardino delle Vergini nel complesso dell’Arsenale.

Il latte dei sogni include più di duecento artiste e artisti provenienti da 61 nazioni. Oltre 180 artiste e artisti non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale d’Arte prima d’ora. Per la prima volta negli oltre 127 anni di storia dell’istituzione veneziana, la Biennale include una maggioranza preponderante di artiste donne e soggetti non binari, scelta che riflette un panorama internazionale di grande fermento creativo ed è anche un deliberato ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuali.

La mostra presenta opere contemporanee e nuove produzioni concepite appositamente per la Biennale Arte, presentate in dialogo con lavori storici che datano dall’Ottocento fino ai nostri giorni.

Distribuite lungo il percorso espositivo al Padiglione Centrale e alle Corderie, cinque piccole mostre tematiche a carattere storico costituiscono una serie di costellazioni nelle quali opere d’arte, oggetti trovati, manufatti e documenti sono raccolti per affrontare alcuni dei temi fondamentali della mostra. Concepite come delle capsule del tempo, queste micro-mostre forniscono strumenti di approfondimento e introspezione, intessendo rimandi e corrispondenze tra opere storiche – con importanti prestiti museali e inclusioni inusuali – e le esperienze di artiste e artisti contemporanei esposti negli spazi limitrofi. Le capsule tematiche arricchiscono la Biennale con un approccio trans-storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili, anche a distanza di generazioni, creando nuove stratificazioni di senso e cortocircuiti tra presente e passato: una storiografia che procede non per filiazioni e conflitti ma per rapporti simbiotici, simpatie e sorellanze.

Con una precisa coreografia architettonica sviluppata in collaborazione con il duo di designer Formafantasma, queste sezioni instaurano inoltre una riflessione sulle modalità con cui la storia dell’arte viene costruita e su come certi dispositivi museali ed espositivi stabiliscono gerarchie di gusto e meccanismi di inclusione ed esclusione. Queste presentazioni partecipano così a quel complesso processo di riscrittura della storia che ha segnato profondamente gli ultimi anni, nei quali è apparso quanto mai evidente che nessuna narrazione storica può essere considerata definitiva. Le capsule tematiche raccontano pertanto storie che possono apparire a prima vista minori o meno note, non ancora assimilate nei canoni ufficiali.

Le artiste e gli artisti

La mostra Il latte dei sogni trova il suo fulcro in una sala sotterranea del Padiglione Centrale, dove la prima delle cinque capsule presenta una raccolta di opere di artiste delle avanguardie storiche, tra cui Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Loïs Mailou Jones, Carol Rama, Augusta Savage, Dorothea Tanning e Remedios Varo. Dalle opere di queste e altre artiste dei primi del Novecento – presentate in un ensemble ispirato alle mostre del Surrealismo – emerge un dominio del meraviglioso nel quale anatomie e identità sono trasformate seguendo le tracce di desideri di metamorfosi ed emancipazione.

Molte di queste linee di pensiero ritornano nelle opere di artiste e artisti di oggi esposte nelle sale del Padiglione Centrale: i corpi mutanti messi in scena da Aneta Grzeszykowska, Julia Phillips, Ovartaci, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona, Sara Enrico, Birgit Jürgenssen e Andra Ursuţa immaginano nuove combinazioni di organico e artificiale, concepite sia come possibilità di reinvenzione del sé sia come inquietanti premonizioni di un futuro sempre più disumanizzato.

I rapporti che legano esseri umani e macchine sono analizzati in molte delle opere in mostra, come, ad esempio, negli esperimenti di Agnes Denes, Lillian Schwartz e Ulla Wiggen o nelle superfici-schermo di Dadamaino, Laura Grisi e Grazia Varisco, le cui opere sono raccolte in un’altra capsula dedicata all’Arte Programmata e all’astrazione cinetica degli anni Sessanta.

Le relazioni che intrecciano corpi e linguaggio sono al centro di un’ulteriore presentazione tematica ispirata alla mostra di Poesia Visiva e Concreta Materializzazione del linguaggio, allestita alla Biennale Arte 1978, una delle prime rassegne apertamente femministe nella storia dell’istituzione. La scrittura visiva e le poesie concrete di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier, Giovanna Sandri e Mary Ellen Solt sono messe in dialogo con esperimenti di automatismo e scrittura medianica di, tra le altre, Eusapia Palladino, Georgiana Houghton e Josefa Tolrà, e con forme di scrittura femminile che spaziano dagli arazzi di Gisèle Prassinos alle micrografie di Unica Zürn.

Segni e linguaggi affiorano anche nelle opere di diverse artiste contemporanee quali Bronwyn Katz, Sable Elyse Smith, Amy Sillman e Charline von Heyl, mentre i quadri tipografici di Jacqueline Humphries sono messi in relazione con i grafemi di Carla Accardi e con il linguaggio-macchina che informa le opere di Charlotte Johannesson, Vera Molnár e Rosemarie Trockel.

In contrasto con questi scenari ipertecnologici, i quadri e gli assemblage di Paula Rego e Cecilia Vicuña inventano nuove simbiosi tra animali ed esseri umani, mentre Merikokeb Berhanu, Mrinalini Mukherjee, Simone Fattal e Alexandra Pirici tessono narrazioni nelle quali preoccupazioni ambientaliste e antiche divinità ctonie si combinano per creare nuove mitologie ecofemministe.

All’Arsenale l’esposizione si apre con l’opera dell’artista Belkis Ayón, che, influenzata da tradizioni afrocubane, descrive un’immaginaria comunità matriarcale. La riscoperta della dimensione mitopoietica dell’arte è apparente anche nelle grandi tele di Ficre Ghebreyesus e nelle visioni allucinate di Portia Zvavahera, nonché nelle composizioni allegoriche di Frantz Zéphirin e di Thaao Nguyen Phan, che nelle loro opere intrecciano storia, sogno e religione. Attingendo a saperi indigeni e sovvertendo stereotipi coloniali, l’artista argentino Gabriel Chaile presenta una nuova serie di sculture monumentali in argilla cruda che si ergono come idoli di una civiltà mesoamericana fantastica.

Molte artiste e artisti in mostra esaminano nuovi e complessi rapporti con la Terra e la natura, ipotizzando inedite possibilità di convivenza con altre specie e con l’ambiente. Il video di Eglė Budvytytė racconta di un gruppo di giovani persi nelle foreste della Lituania, mentre i personaggi nel nuovo video di Zheng Bo vivono in una comunione totale – anche sessuale – con la natura. Un simile senso di incanto meraviglioso ritorna nelle vedute innevate ricamate dall’artista Sami Britta Marakatt-Labba. La riscoperta di tradizioni millenarie si sovrappone a nuove forme di attivismo ecologista anche nelle opere di Sheroanawe Hakihiiwe e nelle composizioni oniriche di Jaider Esbell.

Al principio delle Corderie si colloca un’altra capsula storica, questa volta ispirata agli scritti dell’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin e alla sua teoria della narrazione che identifica la nascita della civiltà non nell’invenzione delle armi ma negli oggetti utili alla raccolta, al sostentamento e alla cura: borse, sacche e contenitori. In questa presentazione i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor sono accostati alle sculture in gesso di Maria Bartuszová, alle sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. Queste opere storiche convivono accanto ai vasi antropomorfici di Magdalene Odundo e ai quadri di fisionomie concave di Pinaree Sanpitak, mentre la videoartista Saodat Ismailova racconta di celle di isolamento sotterranee che fungono da luoghi di fuga e spazi di meditazione.

L’artista colombiana Delcy Morelos, che nelle sue opere si ispira alle cosmologie delle popolazioni delle Ande e dell’Amazzonia amerindia, presenta una grande installazione ambientale nella quale costruisce un labirinto di terra. Molti altri artisti in mostra combinano posizioni politiche e ricerca sociale con progetti che rivisitano tradizioni locali, come nelle grandi tele di Prabhakar Pachpute dedicate alla devastazione ambientale provocata dall’industria mineraria in India, o nel video di Ali Cherri a proposito delle dighe costruite sul Nilo. Igshaan Adams infonde nell’astrazione delle sue composizioni in tessuto significati che spaziano da una riflessione sull’apartheid alla condizione di genere in Sudafrica, mentre Ibrahim El-Salahi racconta la sua esperienza con la malattia e i farmaci attraverso una pratica meditativa di disegni minuziosi e quotidiani.

La parte finale delle Corderie è introdotta dalla quinta e ultima capsula storica dedicata alla figura del cyborg. Questa presentazione riunisce artiste che nel corso del Novecento hanno immaginato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale, creando gli avatar di un futuro postumano e postgender. Questa capsula include opere d’arte, artefatti e documenti di artiste di inizio Novecento tra cui la dadaista Elsa von Freytag-Loringhoven, le fotografe Bauhaus Marianne Brandt e Karla Grosch e le futuriste Alexandra Exter, Giannina Censi e Regina. In questa sezione, le sculture delicate di Anu Põder rappresentano corpi frammentati in contrasto con i monoliti di Louise Nevelson, le figure totemiche di Liliane Lijn, le macchine di Rebecca Horn e i robot dipinti di Kiki Kogelnik.

Attraversata la grande installazione diafana di Kapwani Kiwanga, nelle ultime campate delle Corderie la mostra prosegue con tonalità fredde e sintetiche, nelle quali la presenza umana è sempre più evanescente, sostituita da animali e creature ibride o robotiche. Le sculture biomorfe di Marguerite Humeau, ad esempio, ricordano esseri criogenici che si contrappongono ai monumentali esoscheletri di Teresa Solar. Raphaela Vogel descrive un mondo in cui gli animali prendono il sopravvento sull’uomo, mentre le sculture di Jes Fan usano materiali organici come melanina e latte materno per creare nuove culture batteriologiche.

Scenari apocalittici di cellule impazzite e incubi nucleari affiorano anche nei disegni di Tatsuo Ikeda e nelle installazioni di Mire Lee, animate dai movimenti concitati di una macchina che ricorda il sistema digestivo di un animale. Il nuovo video della pioniera del postumano Lynn Hershman Leeson celebra la nascita di organismi artificiali, mentre la coreana Geumhyung Jeong gioca con corpi ormai completamente robotici e componibili a piacimento.

Altre opere oscillano tra tecnologie obsolete e nuovi miraggi del futuro. Le fabbriche abbandonate e i macchinari fatiscenti di Zhenya Machneva trovano una nuova vita nelle installazioni di Monira Al Qadiri e Dora Budor che vibrano e roteano come macchine celibi. A chiudere questa infilata di meccanismi impazziti, una grande installazione di Barbara Kruger concepita appositamente per gli spazi delle Corderie combina slogan, poesia e linguaggi-oggetto in un crescendo di ipercomunicazione al quale fanno da contrasto le sculture silenziose di Robert Grosvenor, che svelano invece un mondo senza presenze umane. Oltre questo universo immobile cresce il grande giardino entropico di Precious Okoyomon, brulicante di nuova vita.

Negli spazi esterni dell’Arsenale completano la mostra i grandi interventi di Giulia Cenci, Virginia Overton, Solange Pessoa, Wu Tsang e Marianne Vitale, che accompagnano lo spettatore fino al Giardino delle Vergini, in una passeggiata tra forme animali, sculture organiche, rovine industriali e paesaggi stranianti.

La mostra Il latte dei sogni è stata concepita e realizzata in un periodo di grande instabilità e incertezza. La sua genesi ed esecuzione hanno coinciso con l’inizio e il continuo protrarsi della pandemia di Covid-19 che ha costretto La Biennale di Venezia a posticipare questa edizione di un anno, un evento che, sin dal 1895, si era verificato soltanto durante la Prima e la Seconda guerra mondiale. Che la mostra possa aprire è di per sé un fatto straordinario: non tanto il simbolo di una ritrovata normalità, quanto piuttosto il segno di uno sforzo collettivo che ha qualcosa di miracoloso.

Per la prima volta, forse sin dalle mostre del dopoguerra, la Direttrice Artistica non ha potuto vedere dal vivo molte delle opere in mostra né ha incontrato di persona la gran parte delle artiste e degli artisti inclusi. In questi interminabili mesi passati di fronte a uno schermo mi sono chiesta più volte quale fosse la responsabilità dell’Esposizione Internazionale d’Arte in questo momento storico e la risposta più semplice e sincera che mi sono riuscita a dare è che la Biennale assomiglia a tutto ciò di cui ci siamo dolorosamente privati in questi ultimi due anni: la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incomprensione e quella della comunione.

Il latte dei sogni non è una mostra sulla pandemia ma registra inevitabilmente le convulsioni dei nostri tempi. In questi momenti, come insegna la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti ci aiutano a immaginare nuove forme di coesistenza e nuove, infinite possibilità di trasformazione.

Biennale Arte
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