fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 2: Per un pensiero critico
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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 2: Per un pensiero critico

Dopo una apertura meravigliosa, segnata dalla presenza di Krzysztof Warlikowski, la Biennale Teatro ha offerto già alcuni spunti di riflessione. Nel nostro laboratorio proviamo ad intercettarne qualcuno: oggi online un report di Emanuele Regi dalla cerimonia di consegna del Leone d’Oro, una recensione di Matteo Valentini allo spettacolo diretto da Paolo Costantini e un ampio ragionamento sul senso del fare critica oggi, affidato alla studiosa Roberta Ferraresi, co-curatrice del laboratorio di critica. Dunque, nell’ambito della Biennale College Teatro, la critica entra a pieno titolo come momento nodale della vita teatrale: una occasione per chiedersi “qual è la funzione che esercitiamo, cos’abbiamo fatto finora e come possiamo andare avanti?”.

Krzysztof Warlikowski si avvicina flessuosamente al palco. Indossa una giacca nera e una camicia bianca appena sbottonata, i capelli bruni sono creativamente disordinati. Riceve e solleva il Leone d’Oro. La prima “pepita” – per usare le parole di Gianni Forte – della Biennale Teatro 2021 si è trasformata nell’ambito premio.
Le motivazioni che hanno guidato i Direttori Artistici all’assegnazione del riconoscimento sono diverse. Per Stefano Ricci c’è “l’ibridazione continua della dimensione teatrale”, mentre per Forte la “capacità di smascherare la violenza della società contemporanea” e di “individuare il continuo bisogno di amore”. Indubbiamente, secondo il Presidente Roberto Cicutto, Warlikowski è “un altro capitolo che arricchisce La Biennale con il titolo: la bellezza, la cultura e l’arte possono salvare il mondo”.

Dopo un sospiro profondo, il regista polacco alza i penetranti occhi azzurri e inizia a parlare con una voce calma e dolce. Le prime parole di ringraziamento vanno alla compagnia, “il team senza il quale – dice – non avrei ricevuto questo premio”. Un pensiero speciale va a Zygmunt Malanowicz, attore che avrebbe dovuto interpretare Ulisse nel suo ultimo spettacolo Odissey ma che è morto di Covid prima del debutto. L’attualità della pandemia, quindi, arriva – immancabile – nel discorso di premiazione, ma viene integrata a criticità contemporanee più vaste: dimenticarsi del passato e vivere immersi nel presente. Questo per Warlikowski comporta un rischio reale: “se tagliamo fuori la nostra memoria non siamo più in grado di capire il mondo in cui viviamo che diventa raccolta caotica di cose”. Il ricordo, dunque, come un’urgenza del teatro. Questa necessità si traduce sul piano artistico nel suo ultimo lavoro, Odissey, in cui i personaggi sanno, come degli aedi, che solo raccontando storie si può lasciare una traccia nel tempo.

Accanto alla memoria, un altro motivo conduttore emerge durante la conversazione con il critico teatrale Andrea Porcheddu, ovvero il dovere che accompagna il mestiere dell’artista: “Fare teatro è una grande responsabilità per tutti rispetto alle cose che diciamo, a perché le diciamo e cosa vogliamo ottenere”. Tutto ciò accompagna il lavoro quotidiano con la compagnia, in cui nessuno è servo di una visione ma tutti devono essere consapevoli nell’agire: “Non c’è Grotowski, non ci sono sciamani, quello che c’è è la parola razionale”. E aggiunge: “Questo manca in Polonia”.

In ogni caso, per la proprietà transitiva, non si condividono solo gli oneri ma anche gli onori. Infatti, alla fine della replica pomeridiana di We Are Leaving – lo spettacolo di Warlikowski in programma alla Biennale Teatro – gli attori, durante gli applausi finali, chiamano in scena il regista e lo premiano una seconda volta. Poi, usciti dal teatro, immortalano il momento con uno scatto sul pontile, rigorosamente vista Arsenale.

“Cosa ci accadrà? Come vediamo il nostro futuro? Cosa vogliamo e in che cosa ci stiamo trasformando?”. Sono alcuni degli interrogativi che Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte), nominati alla direzione artistica del Festival Internazionale del Teatro per il quadriennio 2021/24, hanno condiviso presentando al pubblico la prima edizione della Biennale Teatro da loro guidata; e sono domande che risuonano ancora più forti se rilanciate nella cornice del progetto College, dunque nel settore pedagogico, formativo, orientato a costruire la scena di domani su cui tanto sta investendo l'Istituzione.

Ormai da più di un anno ci siamo trovati a dichiarare che “non si può tornare alla normalità, perché la normalità era il problema”; nella tragedia che ogni giorno si mostrava sempre più nella propria incommensurabilità, pare un dovere – quasi un debito – tentare di fare diversamente e meglio ciò che facevamo prima, provare a convertire la condizione attuale in un'occasione per ripensarci e cambiare le cose.
Ecco, un laboratorio serve a questo: dall’originaria matrice scientifica agli orizzonti dell’arte e del teatro, è storicamente un luogo protetto dove fare degli esperimenti, testare le prassi che utilizziamo, trascendere i limiti correnti e andare oltre se stessi – insomma, tentare di modificare ciò in cui crediamo. È un’idea e una pratica che oggi può acquistare un valore nuovo, rifondando ancora una volta il proprio senso, proprio nel momento in cui le arti performative mostrano la necessità di cambiare radicalmente, ancora una volta, i propri orizzonti di lavoro.

In più, noi, con questa redazione, siamo qui, impegnati in un laboratorio di critica teatrale.
Forse mai come oggi il nostro mondo – compreso quello dello spettacolo – è e s'è sentito in crisi. Per questo c'è chi ha preso parola, condiviso riflessioni, riorganizzato la propria vita, anche testando alternative possibili. L'ha fatto anche il teatro. La critica, forse, direi, meno, o meno apertamente.
È vero che tanti hanno osservato con attenzione, qualcuno ha lanciato qua e là alcune riflessioni; c’è chi ha ascoltato le manifestazioni del settore e chi ha documentato quel “teatro a metà” che s’è continuato a fare nonostante tutto. Ma, privata del suo “ambiente naturale”, quello dell'incontro fra scena e platea, del suo oggetto di riferimento (lo spettacolo) e del suo strumento-principe (la recensione), certo è che la critica s'è trovata disorientata, come tutti, di fronte a un mondo sempre uguale ma irrimediabilmente cambiato, non si sa ancora bene come. A ogni modo, sempre cercando di vedere mezzo pieno un bicchiere che ormai è difficile anche solo figurarsi, anche questa può diventare un'opportunità.

Per una critica spiazzata, per certi versi mutilata, spesso ammutolita, quasi del tutto annullata, almeno spinta a fermarsi o messa alle strette, nell'incertezza – come chiunque – del proprio prossimo e del suo destino, l'occasione è difficile ma quanto mai obbligata. Perché viene da chiedersi, oggi ancora di più, quale sia la funzione che esercitiamo, cos'abbiamo fatto finora e come possiamo andare avanti. Oppure qual è il posto nel mondo che la pratica critica può occupare. E quali prospettive, traiettorie, attraversamenti possono ancora essere utili, alle prese con una scena e uno scenario che non potrà più esser lo stesso di un tempo, ma che già, in verità, non lo era neanche prima.
Tutto ciò si può provare a sperimentare in un laboratorio – anche di critica –, sicuri di poter sbagliare, ma certissimi di voler provare, insieme ad altre persone, a battere vie nuove; o anche a ripercorrere le vecchie, magari con occhi diversi.

È questo il privilegio della ricerca, che ogni anno offre il College della Biennale Teatro, sempre prezioso, ma forse mai così importante: per chi, dopo mesi di visioni online, contatti a distanza, relazioni mediate, intende scommettere ancora una volta, con tutto il rischio che comporta, su quell'esperienza autentica, dal vivo, che è l'arte performativa; e su quella pratica antica, affascinante e forse in apparenza superata, che è l'esercizio di osservarlo, accompagnarlo e interrogarlo. Ed esporsi insieme ad esso, facendosi scuotere ancora una volta, anche di più, e scoprire che s'illuminano altre strade, fino a ora inimmaginate. 

Un metronomo su un robot aspirapolvere si aggira sul palcoscenico delle Tese dei Soppalchi. Si avvicina al compressore sistemato sul lato destro, compie un’inversione e si dirige verso il sassofono contralto nella parte inferiore, a sinistra. Poi cambia ancora idea, puntando il mucchio di vestiti che delimita la parte alta dello spazio. Nei primi minuti di Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda, lo spettatore segue le evoluzioni del piccolo marchingegno soffermandosi sui diversi elementi che circondano la pedana: un bollitore, una cassettiera, un cumulo di scarpe, una sedia. In conversazione dopo-spettacolo, l’autore Paolo Costantini, premiato alla scorsa Biennale College Teatro nella sezione Registi under 30, parla della deliberata ricerca di un basso coefficiente estetico: “La familiarità degli oggetti è stato un punto su cui fin dall’inizio abbiamo deciso di lavorare. Oggetti che non avessero niente che potesse rimandare a un elemento scenografico, che fossero molto poveri, come il mocio, le scarpe, una sedia, una sveglia, e che fondamentalmente potessero trovarsi nella casa di tutti”.
È un senso di “noia creativa” quello che il regista intende trasmettere: allo spettatore è silenziosamente richiesto di non aspettarsi una narrazione coerente, un messaggio, un’immedesimazione, ma di sintonizzarsi sul ritmo cadenzato del metronomo, implacabile e insieme monotono, e sulle movenze arbitrarie del robot.
Neanche l’ingresso delle due performer (Evelina Rosselli e Rebecca Sisti) contrasta il dominio degli oggetti. Se, all’inizio, questi vengono forsennatamente dislocati sullo spazio scenico, col passare del tempo si trovano a smarrire la loro essenza familiare in funzione di un elemento perturbante: attraverso dei motori nascosti, essi prendono vita e, vibrando, cominciano a spostarsi in modo autonomo.
I corpi, le voci e le parole di Rosselli e Sisti procedono, allora, verso un’approssimazione estetica e fisica al mobilio e agli strumenti in scena: le battute ripetute allo sfinimento (“Come sto?”) diventano prima un balbettio e poi un urlo soffocato in un cassetto e in un secchio pieno d’acqua, mentre la loro postura da verticale si fa orizzontale e i loro movimenti, mano a mano, più rastremati. 
Sempre nel dialogo che ha seguito la messinscena, Costantini esprime l’intenzione di siglare un patto con lo spettatore, basato non sulla comprensione logica di quanto si vede, ma sulla suggestione che ne deriva: una volta che il pubblico accetta, le immagini composte sul palco avrebbero la funzione di farlo interrogare sui temi emergenti dallo spettacolo e, soprattutto, dalle parole del regista. Lo scorrere del tempo, il rapporto con le aspettative altrui, la ricerca della felicità sono alcuni argomenti che dovrebbero essere messi in discussione. 
Tuttavia, proprio questa volontà di esplicitare certi problemi, slegati da una drammaturgia definita e, a volte, affidati all’improvvisazione delle attrici, porta a una sostanziale impossibilità di andare oltre una serie di costruzioni sceniche, in alcuni casi pure suggestive, che si presentano come delle superfici impenetrabili. Lo spettatore rischia di non rintracciare una precisa idea teatrale a supportare gli interessanti pretesti teorici di Costantini. Nonostante abbia accettato quel patto iniziale, non sa a cosa rispondere e non trova spazio per una propria riflessione dialettica. La natura dello spettacolo, di conseguenza, non appare interlocutoria ma dimostrativa, più interessata a convincere che a domandare.

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