Gregory Bateson rivela, in Mente e Natura (1979), che l’intera sua attività di biologo è mirata a trovare una risposta a questa domanda: “Quale schema collega il granchio all'aragosta e l'orchidea alla primula e tutti e quattro a me? E me a te?”.
Con il presente esercizio vogliamo iniziare a mettere in dialogo i lavori a cui stiamo assistendo in questi giorni, per verificare ciò che tiene insieme i mondi diversi che emergono da Biennale Teatro 2025. Con "Legàmi" non intendiamo soltanto immaginare le traiettorie di una direzione artistica, ma raccogliere le tracce invisibili che, per analogia o per contrasto, un confronto tra due o più spettacoli può sollevare.
Quali relazioni interne attraversano l'ecosistema di un Festival? O, con le parole di Bateson, “how is it put together?”
“L’ascolto musicale implica un’apertura sensoriale che coinvolge non solo l’udito, ma l’intera sensorialità. Più l’ascolto è concentrato, più richiede silenzio e sospensione, pur non cessando mai l’attenzione sul corpo dell'azione. Se durante l’ascolto il corpo resta immobile, i suoi movimenti non sono repressi, bensì interiorizzati.”
Anne-Marie Willie, Il corpo musicale. Riflessioni sulla musica e sul movimento.
More Than Heart, il dj set allestito da Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri) a Forte Marghera, ha voluto indagare il rapporto tra corpo e vibrazione, cercando, attraverso l’uso dei bpm, di rendere lo spettatore consapevole del corpo musicale che abita. Le contaminazioni musicali prodotte da Martina Ruggeri generano corpi eterogenei: in movimento o immobili; che compiono gesti appena accennati o che si dimenano; corpi stonati, armonici, manipolati, corpi che vanno a tempo. Corpi che parlano, come quelli di Chouf ed Egeeno, performer protagonisti del dj set: le loro voci vibrano risonanti. Urla tribali, testi contaminati da culture completamente diverse eppure affini. Una sfida all’individualità, quella di Industria Indipendente che grida con la voce di Egeeno: “Siamo un corpo unico, un super organismo”. Gli spettatori danzano, le vibrazioni rimbombano fin dentro le ossa, la musica risuona nella carne che, molle, segue le ascese e le discese della melodia. L’arte dei suoni è uno spazio performativo dal fascino primitivo, creato, forse, dal naturale ritmo del corpo, coordinato, quotidianamente dal battito cardiaco.
Il rapporto tra corpo e suono è un fil rouge che lega indissolubilmente alcuni spettacoli di questo Festival, come I mangiatori di patate di Romeo Castellucci, una performance che sembra voler focalizzare l’attenzione sull’ascolto. Ascoltare è infatti un’azione che include ogni piccola parte del corpo umano. Lo spettatore percorre un corridoio in mattoni, cosparso di archi a tutto sesto. Corpi, forse umani, si muovono all’interno di enormi sacchi neri. La luce è fioca, la vista ci tradisce ma l’udito ci guida nella comprensione. Tappi per orecchie vengono distribuiti al pubblico, nel timore di ledere l’organo protagonista della performance. Ultima stanza, buio pesto, un vento si innalza: il suo rumore è potentissimo, rimango al mio posto, cerco di essere immobile, il mio corpo però si sposta. Il mio battito cardiaco aumenta, ho timore: nel buio può esserci qualcosa, inspiro, espiro, inizio a contare.
Uno, due, tre, quattro. Una donna percorre un cerchio camminando, i numeri crescono, il tempo scorre. Durante la mise en lecture di Tacet – testo di Jacopo Giacomoni vincitore del Bando Drammaturgia Under 40 della Biennale Teatro 2024 –, cinque attori sembrano interpretare una qualità ben precisa di tempo: “Io sono un minuto di silenzio”. La lettura ha un ritmo incalzante, i corpi si alzano, si spostano, si siedono, fanno rumore. Si dice che il silenzio sia il tempo musicale dell’assenza del suono, eppure, come scrive John Cage, citato nel testo di Giacomoni, persino nelle camere anecoiche possiamo sentire la voce del nostro corpo, i palpiti del nostro cuore. Se il silenzio allora non esiste, esiste però il difetto umano di dare un limite a ciò che non percepisce o che ci si convince di non poter percepire. Il suono del silenzio è l’illusione di rendere muto il mondo, un super organismo composto da note invisibili, una partitura teatrale e performativa orchestrata da movimenti e voci che prima di essere tali sono pelle che vibra, corde vocali, palpiti.
Schnecki. Schneeecki. Schnecki?, la mamma chiama così la sua bambina. Al centro della scena, un letto matrimoniale con la biancheria di raso sintetico rosa. La torta di compleanno è al cioccolato, ricoperta di glassa (anch’essa rosa) e infilzata da candeline bianche. Schnecki, in tedesco, significa “bella donna”, alla lettera “chiocciolina”, “lumachina”. Schnecki oggi compie 16 anni. Il palco è abitato da tre attrici. Una tiene tra le braccia una testa, l’erma del suo stesso volto; a un angolo del letto, seduto, il fantoccio della sua riproduzione a grandezza naturale. Sotto al letto, all’inizio dello spettacolo, le gambe di un uomo.
Schnecki può essere anche un nomignolo affettuoso, in italiano potremmo tradurlo con “patatina”: “Che patatina che sei, sei così carina con la gonna e il fiocchetto tra i capelli!”, “Chiudi quelle gambe: non vorrai che ti entrino le mosche nella patatina!”. Così come in italiano, pure in tedesco, Schnecki ha anche il significato di vagina. Call me Paris, lo spettacolo di Yana Eva Thönnes, parla fra le altre cose di questo: di come un soprannome possa modellare la nostra identità, di come ogni cosa abbia il suo doppio e di come la libertà sessuale femminile sia stata un inganno, con l’avvento della pratica dell’auto-narrazione online. “La diffusione dei cellulari ci ha dato l’illusione di poter possedere la videocamera integrata e, di conseguenza, anche la nostra immagine. Internet, così, è stato erroneamente percepito come uno spazio privato, ma invece era tutto fuori controllo”, ha detto Thönnes durante l’incontro con il pubblico. Ritroviamo la stessa dimensione fuori controllo nel surreale Symphony of Rats di The Wooster Group. In scena, abbiamo solo corpi maschili salvo alcune piccole, ma significative, eccezioni femminili: il personaggio dell’androide, interpretato dall’unica attrice presente, compare durante la meccanica scena di un amplesso; l’intelligenza artificiale che è solo voce, e forse ha il compito di riportare il protagonista a contatto con una dimensione più concreta; una donna che mangia caramelle in diretta su Twitch.
E l’umanità che fine ha fatto? Immagini del passaggio della società occidentale sulla Terra appaiono in video mescolate a vecchi film. Mentre un altro schermo lo vediamo solo da dietro. Sta appeso, in alto, non sappiamo cosa viene trasmesso: ciò che osserviamo è soltanto lo sguardo maschile dell’attore in scena, concentrato, rapito, continuamente attratto da quella presenza digitale.
Le domande che possono unire questi due spettacoli sono: che cos’è un corpo? La mia immagine filmata e riprodotta è qualcosa al di fuori di me?
Venezia, Teatro alle Tese. Debutta, in quanto vincitore del bando Biennale College Teatro - Regia 2024-2025 Golem_e fango è il mondo, lo spettacolo di Mariasole Brusa che, a partire dall’alluvione del maggio 2023 in Emilia-Romagna, dà vita all’Uomo di argilla, leggendario essere creato dalle mani di una bambina con la materia fangosa che la circonda, per ripercorrere con dolcezza immaginifica il disastro naturale che ha travolto la sua abitazione.
Il registro onirico dà all’opera la forma di una fiaba cosmogonica, nella quale sabbia e acqua si legano costituendo arti, mattoni, case, corpi e paesi. Dall’assemblaggio delle parti vengono generati soggetti temporanei, esplorati dalle mani di Golem e performer per capirne il limite, e spesso oltrepassarlo. Creazione e distruzione diventano così due facce della stessa medaglia, condizione sostanziale degli atomi che ci compongono, e che ci legano.
Il logos e i suoi possessori precipitano dalla presunta condizione di superiorità, scoprendosi incapaci di avere cura e di controllare le conseguenze, a volte dolorose, del proprio agire sui corpi che toccano. Un solo gesto mal direzionato può bastare a mescolare un volto o a staccare il braccio di un compagno. Eppure, come non stupirsi quando è la mano del fango a rimestare le nostre vite?
Ben diverso è l’immaginario evocato da Call me Paris, della regista tedesca Yana Eva Thönnes, che ha visto il suo debutto al Piccolo Teatro Arsenale durante il primo weekend del Festival. Il memoir teatrale intreccia le storie di due donne vittime di molestia sessuale nei primi anni Duemila. La prima, l’ereditiera Paris Hilton, è protagonista di 1 Night in Paris, sex-tape divulgato dall’ex fidanzato senza il suo consenso. Simil sorte spetta a una giovane adolescente tedesca considerata sosia della it-girl, nonché vittima di stupro e diffusione di materiale intimo.
Niente argilla questa volta: solo una densa macchia di sangue sul pavimento squarcia il setting rosa confetto della camera della protagonista, a testimonianza di un trauma rimosso. Nella stanza le sosia si moltiplicano, emergono da sotto il letto per poi scomparirvi dentro, in un gioco di specchi che assume il sapore di un incubo perturbante. I corpi delle Paris, umani e non, sono volutamente artificiali, bambole bionde in posa “raddrizzate dalla propria ambizione” – dal testo dello spettacolo –, ovvero incarnare un’identità che le faccia sentire viste, e che permetta loro di “giocare con la propria immagine” più di quanto gli altri, con subdola violenza, non facciano già.
In questa proliferazione di immagini (Barbie, il porno mainstream, Marilyn Monroe) incrementata dall’avvento di internet, il meccanismo fotocopiatore si inceppa, staccando arti e mozzando teste, azioni e parole. Spetta alla protagonista ripercorrere ciascun gesto, frugare nella memoria di ogni scheggia organica nel tentativo di comprendere quanto le è accaduto. In scena emergono così costellazioni di ricordi, dove l’identità si manifesta attraverso traumi e modelli condivisi. Sono questi due aspetti a connettere le donne presenti nello spettacolo in un ambiguo legame di sorellanza che rimescola voci e immagini, rendendo impossibile risalire a un’origine univoca. Il corpo di Paris è il corpo di tutt3, organismo aperto e materia duttile che si disperde nel contatto con l3 altr3.